I Carabinieri Reali in guerra

 

 

La guerra d'Etiopia

 

Prologo.

 

Il riarmo tedesco, iniziato nel 1933 e reso effettivo il 6 marzo 1935 con il ripristino in Germania del servizio militare obbligatorio, in spregio alle clausole del trattato di Versailles, colse di sorpresa le Potenze europee e fece perdere ogni parvenza di autorità alla Società delle Nazioni. Di conseguenza i diversi governi cercarono, ciascuno per proprio conto, di garantirsi quella sicurezza che la Società delle Nazioni non poteva ormai più offrire. L'Italia era combattuta tra i propri interessi nell'area balcanico-danubiana, in antitesi con la Germania, e la ricerca verso l'Africa, in particolare l'Etiopia, di quegli sbocchi territoriali che avrebbero potuto costituire un'alternativa al freno imposto dai paesi d'oltremare alla forte emigrazione italiana. Tale progetto era però osteggiato da Francia ed Inghilterra, segnatamente da quest'ultima, che temeva di veder compromessa la posizione dei propri domini in Africa Orientale e paventava la possibile concorrenza dell'Italia nel commercio con l'Oriente.
Il Governo italiano si risolse a favore degl'interessi africani e decise di portare a compimento quella penetrazione in Etiopia abbandonata nel 1896. Per organizzare le forze che avrebbero dovuto attuare i piani del Governo, nell'aprile 1935 fu istituito il “Comando Superiore dell'Africa Orientale” (1) di cui fece parte il "Comando Superiore Carabinieri". Il 2 ottobre 1935 venne dato il via alle operazioni militari ed il 3 seguente le truppe italiane varcarono il fiume Mareb, che segnava il confine tra Eritrea ed Etiopia. La manovra italiana era articolata su tre colonne avanzanti: ad Est il I Corpo d'Armata (gen. Ruggero Santini), al centro il Corpo d'Armata Eritreo (gen. Alessandro Pirzio Biroli), ad Ovest il II Corpo d'Armata (gen. Pietro Maravigna), con gli obiettivi rispettivi di Adigrat, Entisciò e Adua. Contemporaneamente varcava il confine somalo un Corpo misto (gen. Rodolfo Graziani). Tutte le Unità erano agli ordini del gen. Emilio De Bono.
Per il "Comando Superiore Carabinieri" presso il Comando Superiore dell'Africa Orientale furono mobilitate cinque Sezioni, un Nucleo ufficio postale ed una Sezione zaptiè, dislocata presso il Comando del Corpo d'Armata Eritreo. Successivamente furono anche mobilitate 2 Sezioni Carabinieri da montagna, una Sezione a cavallo ed un Nucleo postale per ciascun Corpo d'Armata e Divisione destinati ad operare in Africa Orientale. In Somalia vennero costituite due "Bande" con truppe indigene, forti di 23 ufficiali e 1100 tra sottufficiali e militari semplici. Fu infine istituito un Comando Carabinieri di Intendenza, per il coordinamento dei servizi di polizia militare nelle retrovie e per compiti informativi. Col progressivo affluire sul teatro operativo delle Grandi Unità, l'Arma portò i suoi reparti in Africa a 55 Sezioni da montagna, 6 a cavallo, 6 miste, 3 Sezioni zaptiè e 23 Nuclei, oltre a 3.143 zaptiè e 2.500 dubat somali, inquadrati in reparti diversi. L'Esercito etiopico era diviso in sette masse al comando del Negus Hailè Selassiè, delle quali due terzi fronteggiavano l'Eritrea ed un terzo la Somalia, territori già acquisiti dall'Italia.
Le operazioni militari, iniziate come s'è detto il 2 ottobre 1935, portarono il 5 successivo alla caduta di Adua; l'8 novembre fu presa anche Makallè. In queste due città, tanto significative per la storia italiana, nuclei di Carabinieri entrarono per primi assieme ai reparti dell'84° e del 60° Fanteria. Frattanto al Sud le truppe della Somalia avanzavano su due direttrici: Dolo-Filtù-Neghelli-Madarà-Scebeli; Ogaden-Harar-Dire Daua. Il 15 dicembre l'armata di Ras Immirù tentò invano un'offensiva volta a minacciare l'Eritrea, superando i guadi dei fiume Tacazzè e cercando di risalire a Nord verso la zona di Selaclacà. In quella circostanza il maggiore dei Carabinieri Giuseppe Contadini costituì quattro Bande di irregolari indigeni da impiegare come ausiliari di polizia, per la vigilanza della frontiera; due di esse erano comandate da sottufficiali dell'Arma. In particolare la banda di Cohain, il cui nome derivava dalla zona di reclutamento, fu posta agli ordini del brigadiere Silvio Meloni. Questi, durante una ricognizione oltre il Mareb, nel corso della quale le bande si erano scontrate con un forte numero di nemici, resistette con il suo reparto per otto ore contrattaccando nuclei etiopici che cercavano di aggirare lo schieramento italiano. Infine, caduto l'ufficiale comandante lo scaglione di cui la banda di Cohain faceva parte, il Meloni prese il comando dei reparto; ferito a sua volta, fu sopraffatto e catturato insieme al carabiniere Domenico Palazzo, anche lui gravemente ferito. Tuttavia i superstiti riuscirono a rompere l'accerchiamento nemico e a ricongiungersi con il XXVII Battaglione eritreo.
Nello stesso episodio si distinsero anche il brigadiere Giovanni Amorelli, il quale, ferito tre volte, cadde in un assalto nel tentativo di spezzare il cerchio nemico, ed il carabiniere Angelo Alaimo, che venne colpito al cuore mentre anch'egli si lanciava all'attacco spronando i suoi commilitoni. Alla Memoria dei militari fu concessa la Medaglia d'Argento al Valor Militare. Alle vittoriose operazioni contro Ras Immirù presero parte anche la 305a e 515a Sezione Carabinieri, attestate nella zona difensiva di Adì Qualà - Furdínai - Arresa - Tucul. Gli indigeni, viste stroncate le loro manovre offensive sul fronte settentrionale, si asserragliarono nella regione del Tembien agli ordini di Ras Cassa, progettando di attaccare il fianco destro dello schieramento italiano ed infiltrarsi tra Makallè e Adua. Ma il gen. Pietro Badoglio, che aveva sostituito De Bono il 28 novembre 1935, prevenne la manovra nemica attaccando per primo. Il 20 gennaio 1936 le colonne italiane avanzarono nella regione occupando la località di Zeban Chercatà. Il 21 seguente le forze italiane che difendevano il passo Uarieu, importantissima porta del Tembien, si trovarono, nel corso di una sortita, improvvisamente attaccate da soverchianti forze nemiche. Si accese un combattimento che divenne particolarmente aspro quando i reparti nazionali, ritiratisi, dovettero difendere le posizioni del passo. L'assedio si protrasse sino al 24, allorché l'aviazione italiana ed i rinforzi del XXIV Battaglione eritreo misero in fuga gli assedianti. Alla battaglia parteciparono valorosamente la 302a e la 312a Sezione Carabinieri.
Frattanto sul fronte meridionale il gen. Graziani, pur non disponendo di molte forze, decise di attaccare gli etiopici di Ras Destà che avanzavano a Sud di Neghelli nell'intento di avvolgere le ali dello schieramento italiano alle spalle di Dolo. La battaglia divampò per tutto il gennaio 1936 tra i fiumi Daua Parma, Canale Doria e Vebi Gestro. Entro il 26 gennaio gli italiani occuparono tutta l'area compresa fra i tre fiumi ed una colonna mista. risalendo il Daua, si spinse sino a Malca Murri, a 210 km. da Dolo, base di partenza. Va qui ricordato l'episodio d'eroismo che ebbe per protagonista il brigadiere Salvatore Pietrocola il quale, durante un combattimento a Malca Guba, nella zona di Neghelli, in un momento particolarmente critico dell'azione, caduto il proprio comandante, condusse i pochi superstiti all'assalto, pur ferito gravemente, sinché non cadde colpito a morte. Alla sua Memoria venne concessa la Medaglia d'Oro al Valor Militare. Il successo ottenuto nel Tembien spinse il gen. Badoglio a colpire il nemico sull'Amba Aradam, zona di sutura tra le forze etiopiche del Tembien ed il grosso dislocato nell' Endertà al comando di Ras Mulughetà. Il vittorioso scontro che ne seguì, noto con il nome di battaglia dell' Endertà, costituì la premessa strategica della seconda battaglia del Tembien, con la quale le forze congiunte dei Ras Cassa e Sejum vennero definitivamente sconfitte tra il 27 ed il 29 febbraio 1936. Avviata la campagna verso la fase conclusiva, furono istituiti 4 speciali reparti dell'Arma da impiegare in operazioni tattiche, denominati "Bande autocarrate". Esse vennero inquadrate a Roma ed articolate ciascuna su due Compagnie ed un Plotone comando, per un complesso di 1.000 uomini. Tali reparti s'imbarcarono il 25 febbraio 1936 e raggiunsero Obbia, in Somalia, il 10 marzo successivo.
Sul fronte settentrionale le truppe italiane, avanzando su Gondar e Socotà, occuparono il 28 febbraio la storica Amba Alagi, costringendo il Negus Hailè Selassiè a ritirarsi, con il grosso del suo esercito, a Sud del lago Ascianghi. Da qui il sovrano etiope tentò invano la controffensiva, ma le truppe italiane attestatesi a difesa presso lo stesso lago, sostennero dapprima l'urto nemico fra il 31 marzo ed il l' aprile 1936, poi passarono al contrattacco sbaragliando le forze etiopiche. Quest'ultima vittoria aprì al gen. Badoglio la via di Addis Abeba, capitale dell'impero negussita e, su quella via, il 15 aprile cadde la città di Dessiè. A Sud, intanto, il 12 aprile fu costituito il Comando Raggruppamento Bande di cui facevano parte le "Bande autocarrate" dei carabinieri, le quali il 24 seguente ebbero modo di segnalarsi nell’aspro combattimento di Gunu Gadu (2). Questa località costituiva un formidabile baluardo avanzato dell'Ogaden, presidiato da circa 30.000 etiopici trincerati in caverne scavate tra gli alberi secolari, profonde tre metri e sistemate in modo da consentire un'azione incrociata di fuoco. I Carabinieri attaccarono quelle posizioni con i loro autocarri allo scoperto, ingaggiando un durissimo scontro a fuoco durato dalle ore 7 alle ore 16 del 24 aprile e costellato da episodi individuali di valore. Tra i più salienti, quello del capitano dei Carabinieri Antonio Bonsignore, che si lanciò più volte sui trinceramenti nemici e, nonostante rimanesse ferito ad un fianco, rifiutò i soccorsi e continuò a guidare i suoi uomini sinché non cadde colpito a morte; quello del carabiniere Vittoriano Cimarrusti che, già ferito ad un braccio e medicato sommariamente torno sulla linea di fuoco attaccando gruppi di etiopi che tentavano di sorprendere di fianco la propria Compagnia; nuovamente ferito proseguì l'azione con il lancio di bombe a mano, finché venne sopraffatto dal numero dei nemici; infine, l'episodio del carabiniere Mario Ghisieni che, ferito gravemente alla gamba sinistra mentre attaccava le posizioni nemiche, continuò a combattere fin quando dovette essere soccorso per l'aggravarsi della ferita di cui poco dopo morì. Alla Memoria dell'ufficiale e dei due altri militari fu concessa la Medaglia d'Oro al Valor Militare.
Il 28 aprile 1936 cadde Sassabaneh. L'avanzata proseguì quindi per Dagabur, che fu occupata il 30 successivo; poi il 5 maggio fu la volta di Giggiga, l'8 seguente cadde Harar ed il giorno successivo Dire Daua. Sul fronte settentrionale il 5 maggio 1936 le truppe italiane entrarono in Addis Abeba. Il 9 dello stesso mese il Negus Hailè Selassiè lasciò l'Etiopia per recarsi in esilio a Londra. Seguì l'occupazione del Goggiam e alla fine dei maggio 1936 le operazioni militari poterono dirsi virtualmente concluse. Per le esigenze dell'intera campagna in Africa Orientale l'Arma aveva richiamato dal congedo circa 12.000 uomini ed i suoi reparti mobilitati giunsero a 78 Sezioni, oltre ai Nuclei, alle Bande autocarrate ed a quelle di irregolari indigeni. I Carabinieri, oltre a partecipare a tutte le fasi del ciclo operativo combattendo con le altre truppe, si resero indispensabili nei servizi di loro specifica competenza, di polizia militare e civile. In particolare le Sezioni Carabinieri presso l'Intendenza curarono la sicurezza delle vie di comunicazione e la disciplina del traffico, esercitando inoltre un'azione di controllo e assistenza sui contingenti di operai che affluivano dall'Italia per la costruzione di strade e di altre strutture di supporto logistico alle truppe operanti.
Nel corso della guerra caddero 208 carabinieri; circa 800 furono i feriti. Vennero concesse a singoli militari 4 Medaglie d'Oro, 49 d'Argento e 108 di Bronzo al Valor Militare, oltre a 435 Croci di Guerra. La Bandiera dell'Arma fu insignita della Croce di Cavaliere dell'Ordine Militare di Savoia (oggi d'Italia) con la seguente motivazione:
Durante tutta la campagna, diede innumerevoli prove di fedeltà, abnegazione, eroismo; offrì olocausto di sangue generoso; riaffermò anche in terra d'Africa le sue gloriose tradizioni; diede valido contributo alla vittoria”.

 

1. Premessa

 

Al viaggiatore che nel 1934 attraversava la Saar, operosa regione al confine franco-tedesco, si presentava per le strade l'insolita scena di soldati svedesi, olandesi, inglesi e carabinieri italiani in pattugliamento. Cosa facevano tutti questi uomini in divisa 16 anni dopo la fine della Grande Guerra? La loro missione era pacifica, ma il clima internazionale non lo era affatto. Tutti quei soldati sapevano di trovarsi lì per una decisione della Società delle Nazioni, il nuovo organismo internazionale sorto per evitare un'altra carneficina attraverso il negoziato e la difesa collettiva, ma non tutti potevano essere così fiduciosi in un nuovo ordine mondiale. Fu quella una delle prime missioni svolte dalla Società: e l’ONU, dopo la Seconda Guerra Mondiale, avrebbe imitato spesso questa formula di intervento. Gli uomini chiamati a controllare nella Saar lo svolgimento del referendum erano gli antesignani dei futuri Caschi blu. Nessuno, allora, sapeva che l'Europa si avviava rapidamente sul piano inclinato di un altro micidiale conflitto spinta da un nuovo astro funesto del totalitarismo, complice l'inettitudine e la follia politica delle grandi democrazie europee.

 

2. La resistibile ascesa di Adolf Hitler. Il panorama politico europeo e mondiale si modifica profondamente nel 1933 con l'avvento al potere del capo del Partito Nazionalsocialista, dal quale dipenderà pochi anni dopo lo scoppio della II Guerra Mondiale.

 

Quando Mussolini si preparava all'allungo finale che lo avrebbe portato alla marcia su Roma, nessuno poteva notare quell'oscuro agitatore che il 1° aprile 1920 aveva fondato un piccolo partito di nome NSDAP (Nazionalsozialistische Deutsche Arbeiter Partei, partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori). L'inquieta repubblica di Weimar, il primo fragile regime democratico in terra tedesca, era piena di gente che formava partiti e spesso raccoglieva spostati senz'arte né parte. La polizia bavarese sapeva che Adolf Hitler aveva messo insieme un certo numero di energumeni vestiti di camicie brune che si chiamavano SA (squadre d'assalto), ma in quel periodo considerava molto più pericolosi per il presente e l'avvenire della Germania i comunisti. Hiter non aveva perso tempo a studiare il funzionamento di un partito di massa, anche se il modello erano gli odiati socialdemocratici, e soprattutto aveva trovato un bell'esempio al quale ispirarsi nel duce Mussolini e nelle sue camicie nere. I primi tentativi di Hlitler, tuttavia, furono fallimentari. Il putsch di Monaco (1923) si concluse ingloriosamente e il futuro Fuhrer fu condannato a cinque anni di carcere. Ma alcuni ambienti conservatori avevano già messo gli occhi sul dinamico ex-caporale e dopo appena cinque mesi di carcere non mancarono di seguire con simpatia, e incoraggiare, la sua irresistibile ascesa.

Hitler non perse tempo e ricostruì rapidamente il suo partito, preoccupandosi di curare maggiormente l'organizzazione e la ricerca del consenso elettorale. Ai lanzichenecchi delle SA affiancò una nuova milizia, le SS (Schutzstaffeln, squadre di protezione) più pulite, perbene ed estremamente disciplinate. Nel gennaio 1933 diventò, grazie al successo elettorale, cancelliere del Reich. Un mese dopo, grazie all'ambiguo incendio del Reichstag, avviò la liquidazione delle opposizioni democratiche e di sinistra. Le successive elezioni ancora libere, ma in un clima di terrore, gli diedero un buon 48 per cento dei suffragi e l'opportunità di sbarazzarsi di alcuni scomodi compagni di strada. Nel giugno del 1934 l'alleanza tra nazisti, conservatori e forze armate fu suggellata dalla notte dei lunghi coltelli, in cui le SS sterminarono le SA e i loro capi populisti. Ormai gli elmetti con la doppia runa a fulmime non avrebbero più incontrato ostacoli. E da allora Hitler si lanciò, con parossistica frenesia, in una serie di audaci colpi per smantellare l'assetto europeo dettato dalle potenze vincitrici a Versailles.

Il primo incontro fra Hitler e Mussolini non fu particolarmente cordiale. Hitler voleva annettersi lo Stato cuscinetto dell'Austria, governata dal cattolico autoritario Engelbert Dollfuss, che non accettava di confondersi nel grande abbraccio paritedesco. I nazisti austriaci assassinarono il capo del governo, ma le deboli truppe tedesche vennero congelate alla frontiera quando Mussolini fece sapere che quattro potenti sue divisioni si trovavano al Brennero. Era forse l'ultima volta che il duce dava retta alla voce dell'interesse nazionale ed involontariamente offriva all'Europa un inascoltato esempio di come si dovesse (e si potesse) bloccare sul nascere la meteora nazista.

 

3. Nella Saar come i caschi blu.

 

Hitler lasciò che le acque si calmassero anche perché vi era alle porte l'appuntamento con il plebiscito della Saar e preferiva procedere nel riarmo occulto della Germania. Con la pace di Versailles (1919) la Francia si era ripresa le contese regioni dell’Alsazia e della Lorena, ma aveva dovuto accettare il compromesso di un plebiscito locale per rispettare l'autodeterminazione della popolazione nella Saar. Su invito della Società delle Nazioni l'Italia spedì 1.300 uomini per la prima operazione di polizia internazionale a garanzia della tranquillità di una consultazione popolare. Agli ordini del generale Visconti-Prasca vennero posti un reggimento di granatieri, un battaglione di carabinieri, uno squadrone di carri veloci e il necessario treno logistico e di servizi. Il contingente partì il 19-21 dicembre 1934 per unirsi alla Saarforce, guidata dal generale inglese Brind, comandante in capo della forza.

I carabinieri vennero accasermati presso la Mellin Kaserme a Sulzbach e la Pascal Kaserme di Dudweiler. In attesa del plebiscito (13 gennaio 1935), i carabinieri si ambientarono nel settore loro assegnato e a stendere la rete di un servizio informativo per monitorare la situazione politica. Alla data delle consultazioni ai carabinieri toccarono 81 seggi sui 320 di responsabilità italiana. Le quattro località (Quierschield, Firedrichsthai, Sulzbach e Dudweiler) dovevano essere sorvegliate intensamente perché già prima teatro di gravi torbidi. La giornata del plebiscito trascorse in modo tranquillo, ma il giorno successivo (15 gennaio) quando fu diffuso via radio l'annuncio dell'annessione alla Germania non vi furono soltanto manifestazioni di gioia con bandiere, musica e fiaccolate, ma anche aggressioni ai fautori della neutralità o ai filofrancesi. Per fortuna l'efficienza della Saarforce e dei suoi carabinieri permise di ristabilire la calma nel giro di quarantott'ore. Quattro giorni prima della partenza, il generale Brind si recò in visita di cortesia al battaglione carabinieri, schierato in grande uniforme. "Ovunque ho udito per il vostro contegno parole di ammirazione e di compiacimento ed io ringrazio per la vostri cooperazione e per avere reso il mio compito tanto gradito. Noi stiamo per separarci e per ritornare alle nostre case, e spero che tutti serberemo un grato ricordo del tempo qui trascorso, perché in esso abbiamo potuto portare un piccolo contributo alla causa della pace". Parole di elogio rare per un compassato ufficiale britannico anche in un discorso di etichetta.

 

4. Ai confini la Fiamma con gli sci

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Nel frattempo i Carabinieri Reali stanno affrontando con metodo un altro ambiente operativo difficile. La montagna era stata una loro culla naturale in uno Stato dai confini così aspri come quello sabaudo. Le stazioni confinarie sulle Alpi avevano sempre avuto in dotazione le racchette per facilitare, insieme al cavallo, gli spostamenti in inverno. E’ nel 1922, seguendo l'esempio dei loro specializzati colleghi alpini che tanto avevano brillato nella Grande Guerra, che il Comando Generale istituisce i reparti di carabinieri sciatori. Del resto i reparti di CC RR assegnati alle grandi unità dell'esercito di campagna operanti lungo l’arco alpino provengono in prevalenza dalle stazioni di montagna e hanno già una buona esperienza. Cosi per i carabinieri sciatori e rocciatori il reclutamento avviene tra i militi che prestano servizio nelle stazioni dislocate lungo le Alpi e la dorsale appenninica. Essi sono gli eredi della tradizione alpina savoiarda dei carabinieri nel 1814.

La dotazione prevede il meglio che possa offrire la tecnica sciistica degli anni Venti e Trenta: attacchi e bastoncini moderni, sci specializzati per il fondo o la discesa, materiali come la betulla o il legno di hickory. Lo stile insegnato è il telemarken, soppiantato poi dallo stile scandinavo e da quello alpino. Rivedendo le foto dell'epoca, con quegli attacchi a molla e cavetto d'acciaio (così difficile da reinserire quando si sgancia per una caduta), le racchette in legno con l'impugnatura e il laccio di cuoio, gli scarponi rigorosamente di cuoio chiusi da lacci e soffietto, non si può fare a meno di sorridere pensando alle attuali fibre di carbonio, alle leghe spaziali, agli scarponi in plastica pressofusa. Eppure si deve anche ai carabinieri se lo sci, ancora poco diffuso negli anni Venti in Italia, ebbe un grande impulso nel decennio successivo. Oltre alle normali competizioni di fondo, mezzofondo, discesa pura e slalom, una specialità alla quale gli appartenenti all'Arma amano prendere parte è il biathlon militare, una gara impegnativa per resistenza e precisione, visto che lungo un percorso di fondo bisogna fermarsi e sparare con la massima rapidità ed accuratezza. A partire dal 1930 l'Arma predispone corsi regolari di sci presso le legioni di Torino, Bolzano, Udine e Chieti che si svolgono sui campi di Bardonecchia, Ponte di Legno, del Tonale, San Candido, Pescocostanzo ed altre località minori.

Nello stesso periodo viene ufficialmente riconosciuto all'Arma il motto (già usato) «Nei secoli fedele» (circolare n. 247, 20 maggio 1932) e con un decreto del luglio dello stesso anno viene concesso l'uso della bandiera nazionale ai CC RR. Tre anni dopo, in conseguenza dell'uso della bandiera, viene anche riconosciuto il diritto a fregiarsi di uno stemma. E’ allora che nasce il caratteristico blasone con una mano argentata che stringe un serpente e la granata dirompente d'oro. Particolari insignificanti agli occhi dell'uomo della strada, ma è su questi tangibili simboli di un solido spirito di corpo che si costruisce una tradizione per cui si serve, si vive e si muore.

 

5. Un posto al sole.

 

La politica estera del duce non poteva essere per la natura stessa del suo regime la continuazione di quella del precedente regime liberale. Voleva piuttosto proiettare un'immagine di potenza e di intimidazione anche se questo poteva alienare simpatie e costare posizioni preziose nel concerto internazionale. L'assassinio del generale Tellini alla frontiera greco-albanese (1923) offre a Mussolini l'opportunità di sfoggiare una riedizione della politica delle cannoniere con uno spettacolare bombardamento terroristico sull’isola greca di Corfù. La reazione britannica a questa sfida alla Società delle Nazioni è negativa, ma Mussolini non se ne cura eccessivamente e continua a giocare su un doppio registro: si propone come ago della bilancia e mediatore fra le potenze europee e al tempo stesso mina gli equilibri del 1919 per garantire una nuova espansione imperialistica italiana.

Al primo filone di comportamenti appartengono: il patto di Locarno (1925) per stabilizzare gli assetti tra Francia, Belgio e Germania; il patto Kellog (1928) per la rinuncia alla guerra; il patto a quattro (1933) per un direttorio fra Italia, Francia, Germania e Gran Bretagna che favorisca il disarmo e la collaborazione con la Società delle Nazioni; il trattato di non aggressione con l'Unione Sovietica (1933); il convegno di Stresa (1935) con la Francia e la Gran Bretagna per garantire l'integrità dell'Austria e per opporsi all'ormai evidente riarmo tedesco. La linea destabilizzatrice si concretizza in una serie di altri eventi: il finanziamento delle organizzazioni fasciste a livello mondiale; il patto di Roma (1924) con la Jugoslavia per una revisione dei confini senza la partecipazione della Società delle Nazioni; accordi commerciali con potenze revisioniste come la Germania e l'URSS; ripetute dichiarazioni secondo le quali l'Italia ha il compito storico di esportare il fascismo nel mondo e di tornare a svolgere un ruolo centrale nella civiltà umana come in passato. In questo secondo filone si inseriscono le nuove mire imperialiste nel Corno d'Africa. Inizialmente la politica italiana verso l'Etiopia era stata di continuazione di un benevolo protettorato, confermato dal ruolo attivo svolto per agevolare l'ingresso di Addis Abeba nella Società delle Nazioni e da un patto di amicizia che era stato stipulato nel 1928.

Hailé Selassié non nasconde la propria diffidenza nei confronti del governo di Roma. Nutre il sospetto che l'aiuto di tecnici italiani preluda alla penetrazione economica. Per sventare la minaccia chiama tecnici da altre nazioni e ostacola, per quanto possibile, gli appalti alle ditte italiane per la costruzione di strade, rallentando anche i rapporti commerciali con l'Italia. Nel giro di pochi anni l'atmosfera si avvelena: secondo la testimonianza di De Bono, Mussolini inizia a meditare l'invasione dell'Etiopia fin dal 1932. Il regime fascista sente sul collo il fiato di una depressione economica che gli aliena i consensi interni, già resi tiepidi dall'aumento della corruzione e dell'inefficienza nei rami della pubblica amministrazione. Affiorano così i discorsi sulla necessità di trovare uno sbocco demografico all'Italia sovrappopolata, di avere diritto in quanto razza guerriera e virile ad un impero, di conquistare un posto al sole. Non importa come, non conti a qual prezzo, un successo brillante e inequivocabile appare ormai urgente, anche per lavare l'onta (mai dimenticata) di Adua.

 

Prodromi dell'attacco.

 

Quel che occorre è il casus belli. La zona dei pozzi di Ual-Ual era stata fortificata dagli italiani per proteggere dalle frequenti incursioni predonesche il confine somalo-etiopico e per controllare una ventina di pozzi, risorsa essenziale per le popolazioni nomadi dell'Ogaden, a cavallo tra i due territori. Il possesso della zona, però, non é pacificamente riconosciuto dall'Etiopia e, per la vicinanza al confine con il Somaliland britannico, anche l'Inghilterra era interessata alla questione. Il 24 novembre 1934 una commissione mista anglo-etiopica si avvicina ai pozzi, accompagnata dalla minacciosa presenza di centinaia di abissini armati di tutto punto. Al momento nel fortino si trovano due sottufficiali indigeni e una sessantina di dubat, i quali sollecitano istruzioni al telefono senza cedere la posizione. La tensione sale rapidamente. Arriva il comandante delle bande armate confinarie, capitano Roberto Cimmaruta, il quale si rende immediatamente conto che è meglio fare affluire altre forze sostenute da autoblindo e mettere in allarme l'Aeronautica. Infatti gli abissini pretendono l'abbandono della postazione. A nulla valgono i tentativi di negoziare sul campo una qualche soluzione insieme agli osservatori britannici:: la tensione sale ulteriormente quando i pozzi sono sorvolati dagli aerei italiani. Gli inglesi esprimono una vibrata protesta e se ne vanno. Restano, invece, le bande abissine, guidate da un audace fuoriuscito somalo, Omar Samantar, noto per le sue azioni di guerriglia antiitaliana.

Il 5 dicembre si verificano le prime scaramucce. La risposta italiana, nel pomeriggio e nella mattina del giorno successivo, è devastante. L'aviazione interviene mitragliando e spezzonando i concentramenti abissini. Gli spezzoni al fosforo decidono la partita: 300 morti fra gli abissini, 21 dubat morti ed un centinaio di feriti fra gli italiani. Nel gennaio 1935 Mussolini ottiene dal capo del governo francese, Pierre Laval, un generico assenso alle sue mire sull'Etiopia. Anche il ministro degli Esteri inglese, Anthony Eden, mostra di illudersi che con qualche concessione territoriale a spese dell'Etiopia, l'unica nazione indipendente dell'Africa (membro della Società delle Nazioni), un'intesa antitedesca possa essere imbastita.

 

Alla conquista dell'impero.

 

La macchina bellica fascista si è comunque messa in moto. Il 24 dicembre 1934 il generale Emilio De Bono, quadrumviro alla marcia su Roma, parte per l'Eritrea come alto commissari . o per l'Africa Orientale. Tre giorni dopo scattano le opposte mobilitazioni parziali italiana in Somalia ed Eritrea ed etiopica nell'Ogaden. Una settimana dopo Mussolini dirama in segreto «Direttive e piano d'azione per risolvere la questione italo-abissina». Due mesi dopo vengono mobilitate le divisioni Peloritana e Gavarina, mentre a Massima affluiscono mezzi ed armi pesanti. Il premier inglese Eden propone prima la cessione di parte dell'Ogaden abissino in cambio di un corridoio al mare per l'Etiopia. Roma rifiuta. La conferenza di Stresa appare agli occhi di Mussolini come il giusto baratto: l'Etiopia contro l'appoggio a danno della Germania.

Il duce, nella sua smania di conquista, non si rende conto che la partita vera si gioca in Europa e che dalla tenuta del patto contro la Germania dipende l'indipendenza dell'Austria, e quindi la sicurezza nazionale. Spera di essere comunque in grado di tutelare il fronte al Brennero mentre è impegnato in Africa. Capisce invece benissimo che l'azione della Francia e dell'Inghilterra, lungi dall'impedire efficacemente la sua aggressione, gli permetterà di rinsaldare il vacillante fronte interno. Londra mostra i muscoli concentrando la Mediterranean Fleet, ma le informazioni a disposizione di Mussolini, grazie alle indiscrezioni di membri del governo britannico ostili a Eden, chiariscono che si tratta di un bluff. Un altro scontro di frontiera rappresenta l'occasione per esaltare il valore dell'Arma, che di lì a poco impegnerà 12.000 dei suoi uomini. Nella notte dal 2 al 3 marzo 1932 il brigadiere Gennaro Ventura è di perlustrazione a cavallo insieme ad un buluk basci degli zaptié (in arabo poliziotto) nei pressi di Om-Hagher alla frontiera con l'Etiopia. Un consistente gruppo di abissini tende un'imboscata ferendo lo zaptié, ma Ventura si ripara dietro un termitaio resiste da solo, costringendo gli abissini alla ritirata dopo aver lasciato sul campo un morto e due feriti. Una medaglia d'argento premia il coraggio del brigadiere.

Una ventina di giorni più tardi viene richiamata tutta la classe del 1911 e De Bono riceve il comando di tutte le forze dell'Africa Orientale. Successivamente viene costituito un comando superiore dei Carabinieri Reali presso il comando superiore per l'Africa Orientale con quattro sezioni da montagna (un ufficiale, otto sottufficiali e 70 uomini), una a cavallo (un ufficiale, sei sottufficiali e 33 militi) e un nucleo incarico dell'ufficio postale. Una sezione di zaptié viene assegnata al comando del corpo d'armata eritreo. La mobilitazione dell'Arma avviene secondo un piano riservato, con l'anodina denominazione di Progetto AO (Africa Orientale). I comandi di corpo d'armata e di divisione ricevono in media due sezioni di carabinieri da montagna, una a cavallo e un nucleo postale. Apposite sezioni vengono dedicate alle unità di lavoratori che hanno il compito di sostenere l'immane sforzo logistico in una terra assai accidentata. In Somalia, infine, vengono costituite due bande di carabinieri autocarrati forti di 1.062 uomini in gran parte indigeni, inquadrati da 23 ufficiali e 42 sottufficiali.

 

Sogni di gloria.

 

Nell'autunno del 1935 il dispositivo italiano conta in Eritrea 110.000 italiani e 53.000 indigeni, 35.000 quadrupedi, 4.200 mitragliatrici, 580 cannoni, 112 carri armati, 3.700 automezzi e 126 aerei; in Somalia le forze sono inferiori: 24.000 italiani e 30.000 indigeni, 8.000 quadrupedi, 1.600 mitragliatrici, 117 cannoni, 45 carri armati, 1.850 automezzi e 38 aerei. Pronti per l'ultima guerra coloniale del XX secolo. A fronteggiare l'aggressione fascista sono mobilitabili non meno di 300.000 soldati etiopici, ma non sono inquadrati in moderne unità. E’ ancora un esercito di tipo feudale, praticamente lo stesso che ha sconfitto Baratieri ad Adua nel 1896. Hailé Selassié, vista l'imminenza della guerra, ha fatto ricorso al mercato internazionale degli armamenti acquistando (da ditte cecoslovacche, danesi, francesi e svizzere) 16.000 fucili, 600 mitragliatrici, alcuni pezzi d'artiglieria (soprattutto contraerea) e 10 milioni di cartucce. Una goccia rispetto agli imponenti mezzi messi in campo da Mussolini. Certo le truppe sono motivatissime e conoscono bene il terreno, possono anche disporre di micidiali pallottole esplosive dum-dum, vietate dalla convenzione di Ginevra, ma tutto questo non varrà a niente quando gli italiani ricorreranno ai non meno vietati gas asfissianti. Centinaia di combattenti abissini verranno sfigurati dall'iprite lanciata dall'aeronautica fascista.

Il 2 ottobre 1935 scatta l'attacco con l'attraversamento del confine segnato dal fiume Mareb. La Società delle Nazioni, già minata nella credibilità da numerosi scacchi internazionali, non può che condannare l'aggressione e il 18 novembre vota dure sanzioni economiche. Carbone e petrolio non figurano nella lista degli articoli embargati e l’URSS non si fa pregare nel rispettare il suo trattato economico con l'Italia fornendo spregiudicatamente le materie prime necessarie alla guerra imperialista; la marina mercantile degli Stati Uniti non è vincolata giuridicamente dalla decisione dell'organismo internazionale e la Germania ignora l'embargo. Mussolini organizza imponenti manifestazioni contro le sanzioni dipingendo ai suoi sudditi un'Italia ingiustamente strangolata dalle nazioni plutocratiche. Viene proclamata l'autarchia economica per ridurre la dipendenza dalle importazioni, con il ricorso a surrogati di ogni genere (per esempio, lana di caseina e caffè di cicoria) e al riciclaggio di tutti i rottami metallici. Il culmine dell'esaltazione di massa viene raggiunto con la pubblica raccolta delle fedi nuziali per sostenere le riserve auree della nazione.

L'ondata di nazionalismo acceca anche dissidenti come Vittorio Emanuele Orlando, Arturo Labriola, Benedetto Croce e Luigi Albertini. La Chiesa cattolica, pur trattandosi di una guerra contro cristiani copti scatenata da un dittatore proclamatosi per l'occasione difensore dell’Islam, sceglie un diplomatico silenzio. In un disperato e indecente sforzo di evitare la guerra nel dicembre 1936 viene presentato il piano Hoare-Laval che consiste nel cedere all'Italia gran parte dell'Etiopia (Ogaden, Tigrai, Dancalia), conservando l'indipendenza al resto del Paese. E’ nel continente nero che si svolge la prova generale del vergognoso accordo di Monaco a spese della Cecoslovacchia, ma nessuno se ne accorge. Eppure l'Italia virile vuole una gloriosa guerra contro i barbari abissini. Hitler non partecipa alla grande finzione. Esporta merci embargate verso Roma. mostra di dimenticare le divergenze con Mussolini sull'Austria e si prepara ad incassare il suo credito. Il 7 marzo 1936 tre miseri battaglioni tedeschi rimilitarizzano la Renania senza colpo ferire. Francia e Gran Bretagna non si avvedono che è stato così scardinato l'intero equilibrio europeo. Tre corpi d'armata dall'Eritrea penetrano vigorosamente in terra abissina. Il primo ha come obiettivo Adigrat, il secondo Entisciò e il terzo puntò direttamente su Adua. Il 5 ottobre cade Adua e l'8 novembre viene presa Makallè. L'emozione in Italia è grande e per l'occasione viene lanciata la canzone “Adua è liberata”. I carabinieri penetrano in queste città insieme ai reparti dell'84° e del 60° reggimento fanteria.

Contemporaneamente dalla Somalia avanza su due direttrici (Dolo, Filtù, Neghelli, Madarà da un lato e Scebeli, Ogaden, Harar, Dire Daua dall'altro) il corpo d'armata misto agli ordini di Rodolfo Graziani, il pacificatore della Libia. Alla fine di novembre De Bene viene opportunamente promosso per far posto a un professionista della guerra come il generale Pietro Badoglio, I Carabinieri Reali sono coinvolti presto in aspri combattimenti. Il 15 dicembre l'armata abissina, al comando del valoroso ras Immirù, tenta una manovra per attaccare l'Eritrea guadando il fiume Tacazzè e risalendo verso la zona di Selaclacà. In zona sono state costituite da poco quattro bande di irregolari agli ordini del maggiore dei Carabinieri Giuseppe Contadini. Una di queste, la banda Cohain (denominazione ricevuta dalla zona di reclutamento) guidata dal carabiniere Domenico Palazzo e al comando del brigadiere Silvio Meloni riceve l'ordine di effettuare una ricognizione insieme al 27° battaglione eritreo nella zona di Adì Chiltè o Adì Abò. Vengono affrontati da superiori forze abissine alle quali tengono testa per otto ore, fino a quando i superstiti riescono a rompere l'accerchiamento. Meloni e Palazzo vengono feriti e catturati, ma mantengono un comportamento dignitoso e valoroso che impone il rispetto ai vincitori, meritando la medaglia d'argento. Il brigadiere Giovanni Amorelli cade solo dopo essere stato ferito tre volte nel generoso tentativo di riannodare i contatti con il battaglione eritreo, mentre il suo collega Angelo Alaimo cade alla testa dei suoi irregolari mentre si lancia al contrattacco (due medaglie d'argento alla memoria). Anche gli indigeni si comportano con grande valore. Il bilancio delle perdite è di 28 fra morti e dispersi e 19 feriti. Non vi sono medaglie per loro in questa sfortunata azione.

 

Battaglia per il Passo Uarieu.

 

Vista stroncata l'offensiva contro l'Eritrea, gli abissini si asserragliano nell'aspra regione del Tembien agli ordini dei ras Cassa e Semin e del degiac Mulughietà. Sono in 20.000, occupano posizioni favorevoli e hanno giurato di tenere fino all'ultimo la zona, feudo personale del ras Seium. Tra di loro vi sono moltissimi combattenti scioani ed amhara, giustamente famosi per il loro valore, ritenuti invincibili dalle truppe di colore degli invasori. Poiché conoscono perfettamente la regione e godono di una buona mobilità tattica, gli abissini non hanno alcuna intenzione di resistere passivamente, ma mirano a infiltrarsi nella regione tra Makallè e Adua per colpire il fianco italiano. Badoglio previene la manovra attaccando per primo a Zaban Chercatà il 20 gennaio 1936, ma gli abissini sferrano un attacco poderoso contro il passo Uarieu, la porta del Tembien. Per quattro giorni la situazione è critica fino a quando l'aeronautica e rinforzi del 24° battaglione eritreo non spezzano l'assedio. Alla resistenza vittoriosa partecipano le sezioni 302ª, 312ª e 391ª a cavallo dei carabinieri.

Dal diario del capitano Aldo Pucciani, capitano della 391ª sezione a cavallo: "Ore 9,45 [ ... ] Una frazione nemica, evitata la colonna eritrea attaccante, ci sbarra il passo. Il comando di corpo d'armata prende posizione su un'amba mentre noi carabinieri e zaptié ci schieriamo in formazione di combattimento a fondo valle, dove il terreno permette l'uso del cavallo. Si accende la battaglia. Gli abissini, oltre 2.000, asserragliati nel paese di Mekenò, aprono un fuoco micidiale con pallottole esplosive e si lanciano quindi in puntate offensive, specialmente sulla destra attraverso il letto del torrente Aini, allo scopo di effettuare l'avvolgimento delle salmerie e del comando. [ ... ] I carabinieri a cavallo, con celere manovra, si spiegano per proteggere la posizione tenendosi pronti alla carica qualora il nemico si presenti nella breve spianata, mentre una squadra, col comandante la sezione, forte di 20 cavalieri e armata di mitragliatrici, si lancia verso il burrone. Gli abissini aprono un fuoco intenso, ma i cavalieri, superato il terreno battuto dalle raffiche avversarie, raggiungono di balzo il ciglio del burrone, dove regolari in tenuta kaki e amhara in futa, armati di lunghi kuradè (scimitarre), si scagliano furibondi all'attacco. I nostri, però, li affrontano imperterriti".

E una guerra che, nell'orrore, rivela aspetti fantastici e fiabeschi. Insieme al crepitio delle armi automatiche e agli scoppi delle dum-dum, i sensi sono frastornati dal balenare delle baionette e delle scimitarre. Rotolano a terra fregi tribali di piume ed elmetti coloniali color kaki. Da una parte squillano le trombe alla carica, dall'altra risponde l'acuto suono del negarit abissino. Un anonimo degiac dalla barbetta a pizzo, in sella a un muletto bianco, mentre esorta i suoi amhara all'attacco, viene disarcionato da una pallottola vagante. Il caldo è insopportabile e non tira un alito di vento, ma la spietata fatica della battaglia non arresta l'ardore degli uomini. Sono passate quasi 6 ore e i contendenti sono ancora avvinghiati in un stretta mortale intorno alle salmerie. "Sono le 15: il capitano dell'Arma, presi gli ordini dal comandante il corpo d'armata, organizza un reparto d'assalto: carabinieri e zaptié con mitragliatrici leggere, preceduti e guidati dall'ufficiale, si lanciano in avanti, divorano il breve pianoro, si accrescono dei valorosi difensori del burrone e piombano sulla sinistra nemica. La lotta si ravviva accanitamente in un corpo a corpo furibonda ove gli abissini rivelano tutto il loro istinto sanguinario e guerriero". Il diario del capitano Pucciani, nel sobrio pudore dello stile militare, non spiega che cosa sia un corpo a corpo. Come in una rissa improvvisa i colpi grandinano da ogni parte, budella fuoriescono dalla voragine creata da una baionettata, una sciabola trancia un braccio, le ossa scricchiolano per il fendente del calcio di un fucile. Ovunque urla di terrore, ferocia e morte, che coprono il rantolo dei moribondi e l'ansimare di chi è ancora vivo. Alla fine sotto le scariche implacabili dei carabinieri, gli abissini ondeggiano e si danno alla fuga. Quattro medaglie e undici croci al valore sono la testimonianza del prezzo del valore pagato dai carabinieri e dagli zaptié in quella sanguinosa e terribile giornata. Sul campo restano i corpi di 400 etiopi.

Ma la guerra non è soltanto sangue e coraggio: è anche sudore e olio di gomiti. La vastità e la natura selvaggia del teatro di guerra richiedono un'intendenza capace di mantenere le sue promesse di efficiente supporto logistico per le truppe di prima linea. I carabinieri sono lì, nelle retrovie, per proteggere il flusso vitale e vulnerabile dei rifornimenti dalle frequenti infiltrazioni nemiche, mantenere l'ordine e raccogliere informazioni, Sorge così il comando Carabinieri d'intendenza e l'ispettorato delle retrovie con undici sezioni. Dalla seconda metà del maggio 1935 l'opera infaticabile di questi organizzatori si rivela determinante. C'è tanto da fare: disciplinare le operazioni di scarico a Massaua; sorvegliare la manovalanza indigena e metropolitana; custodire magazzini e ammassi; dirigere e regolare in senso alterno le autocolonne sulla congestionatissima Massaia-Asmara; proteggere la linea ferroviaria dell'Asmara; controllare gli operai in afflusso dalla madre patria e contribuire alla formazione della rete di servizi di polizia militare nella colonia. Soprattutto la disciplina dei movimenti si rivela un compito faticoso. e ingrato non solo perché bisogna operare lontani dai propri reparti e spesso senza un adeguato cambio tra un ciclo ed un altro, ma perché bisogna mantenersi fermi e cortesi per far rispettare le regole della circolazione a tutti, anche a chi pretende un trattamento diverso, accampando urgenze particolari. Il risultato di questo lavoro oscuro, ma determinante, è rappresentato dal movimento regolare lungo le arterie logistiche, senza quegli ingorghi da incubo che costano tempo, ritardi e, in definitiva, vite umane al fronte.

A volte si verificano anche gli imprevisti come, per esempio, quando in un nucleo di carabinieri dell'intendenza viene a conoscenza di un'infiltrazione di un forte gruppo di abissini comandati da un casmagnac di ras Seium. La marcia fino alla zona di Enda Medani Alem è estremamente dura, il terreno sconosciuto ed insidioso, ma la tenacia viene ricompensata. Dopo un'ora di combattimento gli abissini sono volti in fuga ed il loro casmagnac catturato. A due prodi sottufficiali e a un milite dell'Arma viene conferita la medaglia al valore sul campo. Se sul fronte settentrionale le operazioni non sono facili, a sud (sul fronte somalo) il semplice fatto di eseguire una comune avanzata è, di per sé, un'impresa eroica. Le zone di sbarco delle truppe sono lontane dal confine somalo-etiopico e ancor più lontani sono gli obiettivi dell'avanzata. Il generale Graziani, quando si rende conto di avere a disposizione appena un centinaio di mezzi, si impegna in un serio sforzo di lobby burocratico-militare. All'apertura delle ostilità gli automezzi sono diventati 1.800, ma Graziani sa che deve battere il ferro finché è caldo e ai primi del 1936 totalizza 3.400 veicoli, che cresceranno ancora fino alla ragguardevole somma di 5.300 mezzi. Se la Fiat non riesce a fornire gli automezzi nella quantità richiesta, Graziani (dimenticando le regole dell'autarchia) ricorre ai mezzi delle americane Dodge e Ford, che costituiscono gran parte del suo autoparco. Il generale si dà anche da fare per avere unità adatte a combattere su un fronte cosi duro, sollecitando oltre alla divisione Peloritana anche l'invio della divisione coloniale Libia e di bande autocarrate di carabinieri.

I suoi avversari non sono da sottovalutare. Essi dispongono nella zona di truppe relativamente ben inquadrate e ben addestrate, agli ordini di comandanti piuttosto giovani, quindi pieni di ardore e di iniziativa, e affiancati da consiglieri militari stranieri. La figura di comandante di maggior spicco è il ras Destà Damtù, che ha una quarantina d'anni, è un personaggio di primo piano nell'impero etiopico, buon conoscitore dell'Europa e delle sue complesse questioni. Anche l'Italia non gli è sconosciuta perché ha partecipato a una missione diplomatica con il ras Maconnen e ha visitato anche l'Asmara. Nella sua opera di comando è affiancato dal suo coetaneo degiac Nasibù Zamanuel, che ha ricoperto l'incarico di console all'Asmara e per qualche tempo è stato addetto alla missione etiopica a Roma. Esponente di spicco del movimento nazionalista dei Giovani Etiopi, conosce molto bene le lingue italiana e francese. La primissima operazione effettuata dagli italiani in Somalia ha luogo ai primi di novembre e consiste in un'offensiva di rettifica del fronte nell'Ogaden per conquistare migliori posizioni d'attacco. Cadono le località strategiche di Goharrei, Gabredarre e Hamanlei, nomi che torneranno quando si svilupperà lo sforzo offensivo finale delle truppe italiane con alla testa proprio i Carabinieri. Nel gennaio 1936 si svolge la battaglia di Ganale Doria, una ben coordinata puntata offensiva nel settore ovest del fronte somalo. La colonna centrale, agli ordini del colonnello Martini, si scontra con la disperata resistenza delle truppe etiopiche lungo l'importante camionabile che congiunge Dolo a Neghelli. All'uadi Dei Dei gli etiopici riescono a tenere in scacco per due lunghi giorni la colonna Martini e solo dopo combattimenti furiosi le truppe di ras Destà vengono volte in rotta. Anche se la via per Neghelli è aperta, continuano feroci scontri sino alla fine, quando le truppe italiane sconfiggono definitivamente il nemico catturando un enorme bottino di armi, munizioni e vettovaglie.

Subito dopo, il 28 gennaio, si apre la seconda fase delle operazioni che vede il generale Bergonzoli impegnato in operazioni di grande polizia, cioè di lotta antiguerriglia, lungo la direttrice di Mega. La colonna autocarrata è composta da una squadriglia di autoblindo, un gruppo squadroni a cavallo e un battaglione di ascari somali. La colonna ha già alle spalle sei combattimenti in quattro giorni su strade che le memorie ufficiali non esitano a definire di carattere biblico. L'obiettivo dei pozzi di Ueb è faticosamente raggiunto a circa sessanta chilometri da Mega e la colonna è pronta secondo gli ordini ricevuti a rientrare finalmente alle linee di partenza. Per inciso, è interessante notare che la direttrice operativa è stata coperta con una media di 10 chilometri al giorno, un segno evidente delle asperità del terreno e del peso dei combattimenti. Gli abissini hanno in serbo un colpo di coda per gli invasori. Sulla via del ritorno, in una zona particolarmente accidentata, scatta un'imboscata che falcia con il fuoco gli elementi avanzati dei plotoni dell'Aosta. Alla testa del reparto, il capitano De Rege si rende subito conto della minaccia di un'infiltrazione avvolgente dei guerriglieri etiopi e non esita a superare le posizioni avversarie per scongiurare l'accerchiamento. Il tiro preciso degli abissini e la loro velocità di movimento lo falciano alle spalle durante uno scontro selvaggio e disperato. E’ un momento critico. Il brigadiere Salvatore Pietrocola capisce che deve compiere un gesto che sia d'esempio per i commilitoni. Si slancia in una corsa folle verso il nemico, supera le sue stesse pattuglie avanzate, combattendo in preda ad un furore primordiale. Una pallottola gli spezza una gamba, un'altra gli perfora il torace, eppure il brigadiere riesce ancora a lanciare le sue bombe a mano contro il nemico, per cadere poi a terra accanto al corpo del suo comandante. Il generale Bergonzoli, testimone della scena, propone la medaglia d'oro per l'eroico brigadiere.

La guerra non è ancora finita e i Carabinieri scriveranno altre pagine di valore in questa guerra pur ingiusta e sciagurata. Fedeli alla consegna, non sanno che non sarà l'ultima e molti di loro faranno appena a tempo ad abbracciare i loro cari prima di partire di nuovo per le aride terre della Spagna.

 

 

 

NOTE

 

(1) La Proseguendo nella politica di espansione in Etiopia, abbandonata nel 1896, il 2 ottobre 1935 il Governo italiano dette il via alle operazioni militari in Africa Orientale: il giorno successivo le truppe italiane varcarono il fiume Mareb, che segnava il confine fra l'Eritrea - allora colonia italiana - e l'Etiopia; contemporaneamente altri reparti italiani varcavano il confine fra la Somalia - anch'essa colonia italiana - e il territorio dell'impero etiopico.
Per attuare i piani del governo, nell'aprile 1935 era stato istituito il “Comando Superiore dell'Africa Orientale” di cui faceva parte il “Comando Superiore Carabinieri” con alle dipendenze 55 Sezioni Carabinieri da montagna, 6 a cavallo, 6 miste, 3 Sezioni zaptiè e 23 Nuclei, oltre a 3.143 zaptiè e dubat somali, inquadrati in reparti diversi. Nello scacchiere Nord, alla fine del 1935, il maggiore dei Carabinieri Giuseppe Contadini organizzò quattro bande di irregolari indigeni, impiegati come ausiliari di Polizia per la vigilanza della frontiera; due di esse erano sotto il comando di sottufficiali dell'Arma. Il 20 gennaio 1936 le colonne italiane avanzarono nella regione occupando la località di Zeban Chercatà. Il 21 seguente, mentre proseguiva l'azione, le forze italiane che difendevano il passo Uarieu, importantissima porta del Tembien, si trovarono nel corso di una sortita improvvisamente attaccate da soverchianti forze nemiche. Si accese un combattimento che divenne particolarmente aspro quando i reparti nazionali, ritiratisi, dovettero difendere le posizioni del passo. L'assedio si protrasse sino al 24, allorché l'aviazione italiana ed i rinforzi del XXIV Battaglione eritreo misero in fuga gli assedianti. Alla battaglia parteciparono valorosamente la 302a e 312a Sezione Carabinieri. Merita un cenno a parte l'episodio d'eroismo che ebbe per protagonista il brigadiere Salvatore Pietrocola, il quale, durante un combattimento a Malca Guba, nella zona di Neghelli, in un momento particolarmente critico dell'azione, caduto il proprio comandante, condusse lui stesso i pochi superstiti all'assalto, pur ferito gravemente, fino a che non cadde colpito a morte. Alla sua Memoria venne concessa la Medaglia d'Oro al Valor Militare. Avviata la campagna verso la fase conclusiva, furono istituiti speciali reparti dell'Arma da impiegare in operazioni tattiche denominati "Bande autocarrate". Esse vennero inquadrate a Roma ed articolate ciascuna su due Compagnie ed un Plotone comando, per un complesso di 1.000 uomini. Tali reparti s'imbarcarono il 25 febbraio 1936 e raggiunsero Obbia, in Somalia, 10 marzo successivo. Nello scacchiere Sud il 12 aprile fu costituito il Comando Raggruppamento Bande, di cui facevano parte le “Bande autocarrate” dei Carabinieri, le quali il 24 seguente ebbero modo di segnalarsi nell'aspro combattimento di Gunu Gadu (vedi nota 2). Per le esigenze dell'intera campagna in Africa Orientale l’Arma aveva richiamato dal congedo circa 12.000 uomini ed i suoi reparti mobilitati giunsero a 78 Sezioni Carabinieri, oltre ai Nuclei, alle Bande autocarrate ed a quelle di irregolari indigeni. I Carabinieri, oltre a partecipare a tutte le fasi del ciclo operativo combattendo con le altre truppe, si resero indispensabili nei servizi di loro specifica competenza, di polizia militare e civile. In particolare le Sezioni Carabinieri presso l'Intendenza curarono la sicurezza delle vie di comunicazione e la disciplina del traffico, esercitando inoltre un'azione di controllo e assistenza sui contingenti di operai che affluivano dall'Italia per la costruzione di strade e di altre strutture di supporto logistico alle truppe operanti. Nel corso della guerra caddero 208 carabinieri e circa 800 furono i feriti. Vennero concesse a singoli militari 4 Medaglie d'Oro, 49 d'Argento e 108 di Bronzo al Valor Militare, oltre a 435 Croci di Guerra. La Bandiera dell'Arma fu insignita della Croce di Cavaliere dell'Ordine Militare d'Italia con la seguente motivazione:
"Durante tutta la campagna diede innumerevoli prove di fedeltà, abnegazione, eroismo; offrì olocausto di sangue generoso; riaffermò anche in terra d'Africa le sue gloriose tradizioni; diede valido contributo alla vittoria".

(2) Località dell'Ogaden (provincia dell'Etiopia), teatro di un violento combattimento tra le truppe italiane e quelle etiopiche avvenuto nell'aprile del 1936. Dopo la costituzione del "Comando Raggruppamento Bande", di cui facevano parte le “Bande autocarrate” dei Carabinieri, nel Sud del teatro operativo venne deciso l'attacco al baluardo di Gunu Gadu, presidiato da circa 30.000 etiopici trincerati in un sistema di caverne scavate tra giganteschi alberi secolari, profonde alcuni metri e tali da consentire una micidiale azione di fuoco incrociato. I Carabinieri attaccarono quelle posizioni con i loro autocarri allo scoperto, ingaggiando un durissimo scontro a fuoco durato dalle ore 7 alle ore 16 del 24 aprile e costellato da episodi individuali di valore. Sembra giusto citarne i più salienti, come quello del capitano dei Carabinieri Antonio Bonsignore, che si lanciò più volte sui trinceramenti nemici e, nonostante rimanesse ferito ad un fianco, rifiutò i soccorsi e continuò a guidare i suoi uomini sinché non cadde colpito a morte; quello del carabiniere Vittoriano Cimmarrusti, che, già ferito ad un braccio e medicato sommariamente, tornò sulla linea di fuoco attaccando gruppi di etiopi che tentavano di sorprendere di fianco la propria Compagnia; nuovamente ferito proseguì l'azione con il lancio di bombe a mano finché venne sopraffatto dal numero dei nemici; infine l'episodio del carabiniere Mario Ghisieni, che, ferito gravemente alla gamba sinistra mentre attaccava le posizioni nemiche, continuò a combattere fin quando dovette essere soccorso per l'aggravarsi della ferita di cui poco dopo morì. Alla memoria dell'ufficiale e dei due militari fu concessa la Medaglia d'Oro al Valor Militare alla Memoria.

 

 

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FONTE

Il sito ufficiale dell'Arma dei Carabinieri www.carabinieri.it