I Carabinieri Reali in guerra
testo non corretto
La caduta del fascismo
1. Premessa.
Quel che sta accadendo oggi in Somalia ha forse riportato alla mente di molti anziani i ricordi della guerra in Africa, all'inizio degli anni Quaranta. Piazze e strade delle nostre città sono ancora dedicate all'Amba Alagi o al Duca d'Aosta, il segno di un'epopea che non può essere dimenticata, anche perché la lotta fu allora impari e dolorosa, con una drammatica inferiorità di mezzi e di uomini. I Carabinieri scrissero pagine di gloria in Etiopia su quel fronte intriso di fatica e di dolore: caldo, marce spossanti, poca acqua e poco cibo, molte mosche. La guerra avrebbe riservato altre tragedie di pari, se non maggiore, entità: la campagna di Russia, con il dramma dell'ARMIR, e poi la disfatta, la caduta del fascismo, l'8 settembre, lo sbandamento del "Tutti a casa". Soltanto dopo di allora i nostri soldati, e non soltanto loro, poterono rialzare la testa nella lotta contro gli invasori nazisti, nella guerra partigiana. Questa è la cronaca delle pagine più amare, del periodo che va dalla sconfitta in Africa ai giorni immediatamente successivi all'armistizio.
2. Le prove generali. Nel 1941, in Africa, i soldati italiani si coprirono di gloria, ma non riuscirono a resistere alle truppe alleate. Fu quello il segno della svolta che si consumò poi in Russia e, infine, sul fronte occidentale.
L'Etiopia, pilastro dell'impero fascista, non era mai stata completamente soggiogata e i Carabinieri Reali avevano continuato la loro opera dura e tenace. Le prime vittime del dovere furono proprio due carabinieri sorpresi poco dopo lo scoppio del conflitto dal voltafaccia di un capo tribale appena sottomesso. Un gruppo di armati piombò dentro la stazione dei Carabinieri a Marmarefià intimando ai due militi di cedere le armi. Savino Cossidente rifiutò, ingaggiando una lotta selvaggia. Il suo collega, Mariano Vincenti, tentò di lanciare bombe a mano. Entrambi furono uccisi a pugnalate. L'Arma li ricorda rispettivamente con una medaglia d'oro e una d'argento. All'inizio il rapporto di forze era ancora favorevole agli italiani: l'impero britannico doveva ancora mobilitare appieno il suo potenziale militare. Una fortunata offensiva (luglio 1940) sviluppò un saliente nella zona di Cassala, per conquistare poi tutto il Somaliland britannico. Per una volta, l'offensiva non era stata motivata da manie di grandezza, ma dall'esigenza di conquistare un avamposto strategico da cedere, in caso di necessità, per guadagnare tempo. Le linee logistiche con la madrepatria erano totalmente controllate dal canale di Suez e solo un esito positivo della guerra nel deserto avrebbe potuto riaprirle. Già nel settembre 1940 i britannici avevano raccolto forze sufficienti per passare al contrattacco e nel gennaio del nuovo anno Cassala fu ripresa, il Somaliland fu riconquistato e la Somalia fu invasa da sud.
La guerra si snodava in una serie di assedi inglesi a punti chiave del territorio occupato dagli italiani, i quali opponevano una ostinata resistenza. Gli stessi inglesi definirono la piazzaforte di Cheren "a hard not to crack" (una noce dura da schiacciare). Solo dopo averla espugnata, il 27 marzo, furono in condizione di avanzare nella prima settimana di aprile fino a Massaua. A Cheren si distinse la 3ª Compagnia Carabinieri e Zaptjé, comandata dal capitano Felice Levet. Appena giunta in zona, il 5 marzo, fu scaraventata a riconquistare la quota 1702 sul monte Tetri. I mezzi erano esigui come sempre, mitragliatrici leggere e bombe a mano, ma la furia dell'assalto fu tale da costringere i nemici ad abbandonare la posizione. Sei giorni dopo, la Compagnia, rinforzata da un altro plotone di carabinieri, fu dislocata nella posizione critica di quota Forcuta. Preceduto da un vigoroso bombardamento, avanzò un battaglione dello storico reggimento scozzese dei Camerons. Erano soldati consci della tradizione di gloria che il loro reggimento rappresentava ed erano ben decisi a sloggiare gli italiani. Ma non ce la fecero. La 3ª Compagnia bloccò il loro attacco e con una squadra di Carabinieri arditi stroncò rapidamente un riuscito sfondamento nemico. Una delle anime della resistenza, il tenente Giovanni Satta, non lascia la postazione benché gravemente ferito, mentre il brigadiere Attilio Basso, che aveva perso una mano, lanciò con l'altra l'ultima bomba gridando "Fino a quando i Carabinieri sono qui, il nemico non passa". Satta e Basso furono decorati con la medaglia d'oro. Soltanto il giorno 26, ricevuto l'ordine di ritirata, gli eroi superstiti ripiegarono mestamente. Pagine altrettanto degne di ammirazione furono scritte dai carabinieri del II Gruppo mobilitato nella difesa dell'Amba Alagi. La posizione dominante dell'Amba Uoghelè fu tenuta da una trentina di militi, che riuscirono a far credere al nemico di essere in numero,superiore. Insieme ai rinforzi respinsero gli avversari a valle dopo un feroce corpo a corpo.
L'ultima bandiera a Culqualber.
La resistenza eroica dell'Amba Alagi si era appena chiusa con l'onore delle armi (18 maggio 1941), ma il generale Guglielmo Nasi non si era ancora arreso nella città di Conciar. Un quadrilatero di capisaldi avanzati (Uolchefit, Celga Blagir, Tucul Dinghià, Sella Culqualber) proteggeva l'ultima città, nel raggio di una cinquantina di chilometri, nella quale sventolasse ancora il tricolore. Durante il mese di febbraio si era deciso di evacuare Gondar in modo da ridurre i problemi di alimentazione per la guarnigione. Man mano che il nemico (lento, metodico, attento a risparmiare uomini e mezzi) si avvicinava, i ras locali si ribellavano rendendo sempre più insicura la periferia della città. Il 29 settembre cadde per fame il presidio di Uolchefit, mentre una nuova posizione fu ricostituita al passo Ualag a 25 km da Gondar. Sella Culqualber era importante perché controllava l'unica rotabile di buona qualità, al contrario del passo Fercaber scarsamente transitabile. In agosto era giunto il I Gruppo mobilitato Carabinieri e Zaptié che fu assegnato alla posizione detta del Costone dei Roccioni in posizione dominante rispetto alla rotabile. I Carabinieri non persero tempo e con mezzi di fortuna fortificarono il Costone con tronchi d'albero, scavando nella roccia feritoie in ogni direzione. I viveri scarseggiavano e anche le immancabili sigarette erano un vago ricordo soppiantato da sigaretti di ogni tipo di foglia secca.
A settembre le comunicazioni con Gondar furono tagliate e i Carabinieri effettuarono numerose sortite per allentare la morsa dell'assedio. L'acqua veniva raccolta, correndo molti pericoli, da due fiumiciattoli fuori dal raggio delle artiglierie amiche oppure, in alternativa, da una minuscola sorgente o dallo sfruttamento della condensa dell'umidità notturna. Ai primi dell'ottobre 1941 la fame si fece sentire a tal punto, che il comandante del caposaldo di Culqualber, colonnello Ugolini, decise una serie di puntate offensive al solo scopo di procurarsi i viveri necessari. Il 18 ottobre le forze italiane conquistarono la ben fornita posizione di Lamba Mariam e, grazie alla copertura dei carabinieri, i reparti (dopo aver raccolto i viveri) riuscirono a rientrare con lievi perdite, nonostante un pesante contrattacco nemico. Si trattò di un successo effimero. I britannici intensificarono la pressione con continui bombardamenti, cannoneggiamenti e attacchi di fanteria ed irregolari etiopi. Il 6 novembre un potente assalto avversario si spezzò sul margine sud del caposaldo. I comandanti britannici, esprimendo ammirazione per la resistenza opposta, invitarono gli italiani alla resa. Invano. A partire dal 10 novembre gli inglesi prepararono una nuova offensiva. Nella notte del 12 una valanga di bande Uollo, appoggiate da battaglioni sudanesi e kikuyu si rovesciò sul Costone dei Roccioni. I contrattacchi dei Carabinieri e degli zaptié, spesso all'arma bianca, costrinsero il nemico a ripiegare la sera del 13. Per tutta la settimana gli attacchi, spesso appoggiati da carri e blindati, si susseguirono senza sosta. Il 20, nonostante l'appoggio dell'aviazione e di molti mortai, gli avversari ancora una volta fallirono l'obiettivo. Soltanto con un attacco generale su tutta la linea e dopo sette pesanti assalti, la forza anglo-etiopica riuscì a domare definitivamente questo manipolo di valorosi il 21 novembre. Furono i Carabinieri ad ammainare l'ultima bandiera e a ripiegarla, prima di partire per la prigionia.
3. L'inferno dei Balcani.
Dopo la disgraziata campagna di Grecia e l'inseguimento della vittoriosa avanzata tedesca per tutta la penisola balcanica, le truppe italiane di occupazione pensavano che quello sarebbe stato un fronte tranquillo. Lontani dalle roventi pietraie libiche e dalle sconfinate steppe russe, li sarebbe stato possibile godere la quiete di una retrovia. Anche i carabinieri per quanto impegnati a creare la loro rete di stazioni e tenenze, svolgendo i loro compiti d'istituto, non si immaginavano che cosa sarebbe capitato nel giro di pochi mesi. Una parte della Slovenia (Lubiana) venne occupata e annessa all'Italia; in Croazia i tedeschi appoggiarono la creazione di un regno, destinato ad Aimone di Savoia, ma che in pratica era nelle mani del poglavnik (duce) Ante Pavelic; la Serbia era ridotta ad un protettorato guidato dal generale Nedic; alcune zone limitrofe erano occupate dagli alleati ungheresi.
La Jugoslavia, considerata un'artificiale creazione della pace di Versailles, sembrava traumatizzata dalla sconfitta, ma nei boschi si nascondevano uomini armati che stavano organizzando la resistenza. Molti erano ufficiali e sbandati dell'esercito iugoslavo. In maggioranza serbi, orgogliosi della loro nazione, niente affatto disposti ad accettare passivamente il crollo della loro patria e pronti a lottare contro gli invasori perché il re potesse fare ritorno dal suo esilio londinese. Molti avevano scelto la guerriglia, il sabotaggio, le imboscate di cui furono spesso vittima i nostri soldati: ruote sgonfie, motori mal riparati, fili della luce e del telegrafo tagliati, binari divelti. Quando i carabinieri trovarono le prime sentinelle sgozzate a tradimento fu chiaro per tutti che quei luoghi erano l'anticamera dell'inferno. Da allora in poi le placide cittadine slovene, i pittoreschi paesaggi croati, i folti boschi della Bosnia, le piane della Serbia, i monti macedoni ed albanesi si trasformarono in zone inospitali nei quali la morte era in agguato continuo. Alla guerriglia serba, bosniaca, slovena, reagirono con grande durezza i tedeschi e gli ustascia croati: i primi erano addestrati alla controguerriglia; i secondi erano appena riusciti a realizzare, con l'aiuto dei nazisti, il sogno della grande Croazia e non intendevano davvero arrendersi ai loro nemici mortali, comunisti o filomonarchici che fossero.
Partigiani ovunque.
In Grecia i rapporti con la popolazione locale erano progressivamente migliorati. Inizialmente i greci avevano diviso i loro sentimenti nei confronti delle truppe dell'Asse, che avevano occupato il Paese, riservando ammirazione ai tedeschi, la cui avanzata era apparsa inarrestabile, e disprezzo agli italiani che avevano penato così tanto sui monti del Pindo. L'arroganza dei tedeschi e l'umanità degli italiani avevano mutato, in un secondo momento, l'atteggiamento della popolazione. Ma anche questa seconda fase fu presto superata. La guerra partigiana divise la Grecia fra collaborazionisti e patrioti, comunisti e filomonarchici, traditori ed eroi. Gli agguati si moltiplicarono, le strade diventarono insicure, nemmeno le caserme offrirono più un rifugio sicuro. Vi furono episodi sanguinari e vergognosi, con imboscate e rappresaglie incivili, senza più alcun rispetto umano. I prigionieri venivano spesso sottoposti a maltrattamenti e torture. I rastrellamenti si susseguivano senza sosta, e anche i carabinieri parteciparono a scontri durissimi. Molti pagarono con la vita la loro fedeltà alla consegna ed alla bandiera. Il carabiniere Rahaman Gjanaj cadde nel 1940 presso Scutari durante uno scontro con sei fuorilegge. Il suo collega Alfredo Gregori fu preso prigioniero a Veli-Dolac e passato per le armi perché non cantava con i partigiani (1941).
Al grido di "Viva l'Italia" cadde sotto il piombo di un plotone improvvisato il vicebrigadiere Bruno Castagna (Monte Maljnjek, 1942), anche lui catturato dopo un aspro combattimento e rimasto insensibile alle minacce: non si era voluto togliere gli alamari e i guerriglieri, scampati all'attacco della sua colonna mobile, lo giustiziarono. Altri ebbero la fortuna di morire in combattimento. Il vicebrigadiere Giovanni Calabrò scortava una disgraziata autocolonna che venne falcidiata dalle raffiche di una imboscata. Benché ferito, prese il comando della colonna, ma fu fulminato da una raffica mentre tentava di recuperare una mitragliatrice. L'appuntato Sabato De Vita resistette con i suoi militi ad un attacco nella sperduta stazione di Barmash. I nemici erano numericamente molto superiori, ma lui non si arrese neppure quando fu incendiata la caserma. Morì scagliando le ultime bombe a mano (Albania, dicembre 1942).
4. La campagna di Russia.
Una volta sbarazzatosi del fastidioso inconveniente creatogli dall'alleato in Grecia e dai nazionalisti jugoslavi, Adolf Hitler era pronto per scagliare la grande offensiva con la quale contava di risolvere definitivamente in suo favore il conflitto: l'operazione Barbarossa. Non era una campagna come le altre. Era la prova suprema nello scontro con gli odiati comunisti e il mezzo per realizzare il progetto della conquista di un "Lebensraum" (spazio vitale) ai danni della razza slava. Stalin, che aveva favorito il riarmo segreto della Germania, affiancando i nazisti nella guerra contro la Finlandia e partecipando alla spartizione polacca, diffidava di Hitler, ma riteneva improbabile un attacco tedesco contro la Russia. E non dette molto credito alle spie che moltiplicavano le notizie allarmistiche in tal senso. Fu così che l'esercito sovietico si presentò all'appuntamento con il destino con uno stato maggiore decimato degli elementi più brillanti e con le armate disposte nel peggiore dei modi, a cordone lungo la frontiera. Il 22 giugno 1941 i marescialli tedeschi mobilitarono la più imponente forza corazzata mai vista sulla faccia della terra, la "Luftwaffe" schierò centinaia di aerei e le divisioni tedesche e alleate erano così numerose da rendere necessaria la creazione di gruppi di armate. Tre milioni di uomini erano pronti all'attacco.
Il gruppo d'armate Sud, agli ordini del brillante Rundstedt, doveva puntare su Kiev. Il gruppo d'armate Centro, comandato dal maresciallo Bock (che aveva a propria disposizione uno specialista di corazzati come il generale Heinz Guderian) aveva come obiettivo Mosca, mentre Leningrado era la meta del gruppo d'armate Nord di Leeb. I sovietici non avevano capito la tecnica del "Blitzkrieg". Nonostante la macchina bellica nazifascista fosse inadeguata da un punto di vista logistico a causa delle sterminate estensioni russe, le armate teutoniche macellarono e catturarono in gigantesche battaglie d'annientamento intere armate sovietiche. I tre marescialli Budionny, Timoshenko e Voroshilov assistettero impotenti alla disintegrazione dei loro fronti nel giro di poche settimane. Il tridente dell'Asse si avvicinò pericolosamente a Leningrado, Mosca e Stalingrado. Per evitare la disfatta (che sembrava prossima), Stalin fu costretto a mettere in subordine la fedeltà di partito facendo appello al nazionalismo russo. La mobilitazione generale e l'arrivo del terribile inverno scongiurarono la sconfitta. Nuovi marescialli, come Georgi Zhukov, organizzarono magistralmente le difese di Mosca e si impadronirono rapidamente dei segreti della guerra moderna. Carri tenuti segreti (come il leggendario T-34) uscirono finalmente dalle fabbriche e i soldati invasori impararono presto a riconoscere l'ululato sinistro delle katjushe, ironicamente chiamate dai tedeschi organi di Stalin.
Tra il gelo e la mitraglia.
Mussolini ancora una volta era afflitto da un pernicioso presenzialismo. Hitler avrebbe preferito che l'Italia fosse rimasta lontana dal fronte orientale e certamente sarebbe stato più utile per noi impegnarci maggiormente nel delicato scacchiere mediterraneo, ma le cose andarono in un modo decisamente diverso. Il 9 luglio 1941 il CSIR (Corpo Spedizione Italiano in Russia), composto dalle relativamente moderne divisioni autotrasportate Pasubio, Torino e Celere, si adunò in Romania. Pochi mesi dopo venne formata un'8ª armata per un totale di 10 divisioni agli ordini del generale Gariboldi. L'ARMIR (Armata Italiana in Russia), forte di 220.000 uomini, 1.300 cannoni e 18.000 automezzi, fu schierata a Sud sul fronte del Don insieme ai tedeschi ed ai rumeni. Dieci giorni dopo il suo arrivo fronteggiò un pesante attacco russo (20 agosto 1942). Il rigido inverno russo (pare che da decenni non facesse così freddo) sorprese l'ARMIR in un settore debole del Don, insieme alle non certo robustissime 2ª armata ungherese e 3ª rumena. I russi, che dal 24 agosto opponevano una strenua resistenza casa per casa in furiosi, raffinati e crudeli scontri, avevano scelto anche quel settore per scardinare le esili linee tedesche. L’11 dicembre il peso del rullo compressore sovietico si scaricò sull’ARMIR lungo un fronte di 200 chilometri. La resistenza italiana durò esattamente 10 giorni contro la massa di uomini, artiglierie e carri abilmente e decisamente manovrata dai russi. Poi, il fronte italo-rumeno-ungherese si sfaldò all'improvviso. Gli italiani furono costretti a ripiegare e su Stalingrado si chiuse il coperchio del sarcofago della 6ª armata tedesca di von Paulus.
Venti giorni dopo le forze sovietiche riuscirono a imbottigliare il grosso delle truppe italiane (11 gennaio 1943). Cominciò una tragica ritirata dal Don alla linea del Donetz per un calvario di 400 chilometri. Gli uomini marciavano come automi, paralizzati dal gelo, fino a quando non si accasciavano e si lasciavano morire assiderati. Le squadre di partigiani e la cavalleria sovietica si accanivano sulle disgraziate colonne affamate. I carabinieri erano presenti con un battaglione, una compagnia, 45 sezioni e 8 squadriglie e condivisero in pieno la tragedia della ritirata. La campagna di Russia fu teatro di grandi atti di eroismo individuale e collettivo. Di un episodio straordinario fu testimone, durante la tormentosa ritirata della divisione Torino, il sottotenente Attilio Boldoni, comandante la 66ª sezione in forza alla Torino, insieme alla 56ª. Da Popowka ad Arbusov la retroguardia sostenne durissimi combattimenti per proteggere la ritirata, prima di arrivare alla conca di Arbusov, che venne successivamente soprannominata la Valle della Morte.
Un cavaliere e un tricolore.
Quando i russi chiusero la sacca, il comando italiano e quello tedesco decisero di sferrare un contrattacco generale. Ricorda Boldoni: "Sin dal mattino del 22 dicembre, la situazione si fa tanto insostenibile che il comando della Torino, d'intesa con il comando tedesco, decide di tentare un ultimo disperato sforzo per allargare il cerchio, così da dare un po' di respiro alla difesa. Dovrebbe essere un contrattacco generale delle truppe germaniche, irradiantesi nelle varie direzioni più redditizie, dal centro, dove saranno riunite, per l'accompagnamento dell'azione, le armi pesanti ancora utilizzabili (cannoni, mortai e mitragliatrici). [ ... ] Arbusov è una località situata al centro di alture che erano dominate dai russi. Questa località verrà poi indicata come Alcazar degli italiani per i loro atti di eroismo". Il nome di Alcazar ricorda la cocciuta resistenza dei reparti franchisti nell'Alcazar di Toledo durante la guerra di Spagna. E’ un richiamo significativo delle condizioni disperate in cui versavano gli italiani in quel momento. Gli italiani dovettero subire completamente allo scoperto un bombardamento micidiale perché i tedeschi si erano affrettati ad occupare tutte le case disponibili. Nelle loro ristrette buche scavate nel terreno gelato i fanti sentivano sibilare la morte, con il tonfo sordo dei potenti mortai da 120 millimetri, il boato delle granate di grosso calibro e l'urlo delle katjushe.
Quando arrivò l'ordine di forzare il blocco, gli atti di valore non si contarono. "A questo punto", - racconta Boldoni - "avviene un fatto portentoso, incredibile della cui realtà, chi scrive, si sente ancora istintivamente indotto a dubitare [ ... ] tutto a un tratto, alle nostre spalle, vediamo avanzare a cavallo un giovane che va risolutamente verso il nemico, agitando una bandiera tricolore e incitando i compagni a un estremo e supremo sforzo, di vita o di morte". Era il carabiniere Giuseppe Plado Mosca che galoppava oltre le linee nemiche, impugnando stretta la bandiera, spinto da un sacro furore guerriero e trascinandosi dietro altri uomini. I russi, presi alla sprovvista, ebbero uno sbandamento. Mosca fu inghiottito dalla battaglia: il suo cavallo, ferito, tornò solo nelle trincee amiche.
5. La notte del gran Consiglio.
"Li inchioderemo sul bagnasciuga", aveva promesso il regime fascista. Ma non fu così e il 10 luglio 1943 gli anglo-americani sbarcarono in Sicilia con l'operazione Husky. Il dramma dell'Italia, pienamente consapevole dei rintocchi a morto per l'Asse dopo El Aiamein e Stalingrado, nacque da una profonda divergenza strategica tra Churchill e Roosevelt. Il primo aveva una visione geopolitica riguardo agli spazi mediterranei di stampo britannico e imperiale: non si fidava di Stalin e pensava che dal Mediterraneo dovesse partire l'assalto finale contro la Festung Europa (fortezza Europa) dei nazisti. Un audace sbarco in Istria e una dilagante avanzata su Lubiana (in Slovenia) avrebbero provocato in un solo colpo sia la recisione dei legami strategici tra la Germania e la più debole Italia sia l'occupazione preventiva della delicata area balcanica e centroeuropea ai danni delle armate sovietiche. Roosevelt la pensava diversamente: riteneva che gli obiettivi strategici di Stalin fossero gli stessi degli americani. I russi sollecitavano l'apertura di un secondo fronte: l'invasione della Francia da parte delle truppe alleate che consentisse un'operazione a tenaglia sulla Germania. Ma i mezzi a disposizione degli alleati, pur imponenti, non erano sufficienti per consentire di penetrare contemporaneamente in Francia e in Italia. La campagna d'Italia doveva quindi essere considerata secondaria e non doveva essere combattuta sfruttando in pieno la superiorità aeronavale degli alleati.
Gli italiani, nel frattempo, si stavano rendendo conto che il vento era mutato e le sorti del conflitto erano ormai compromesse in modo definitivo. La corte esortava il re a rompere l'alleanza con i tedeschi. E anche fra i gerarchi fascisti si faceva strada l'ipotesi di un fascismo senza Mussolini, che avesse la monarchia come punto di riferimento. Nel luglio del 1943 si infittirono i contatti segreti e gli intrighi: le decisioni subirono una pesante accelerazione dopo il bombardamento aereo del popolare quartiere di San Lorenzo (19 luglio). I Carabinieri erano considerati uno dei fulcri della monarchia sabauda e il nuovo Comandante Generale, Azzolino Hazon, fece parte del ristrettissimo gruppo che preparava il rovesciamento di Mussolini. La sorte volle che questo generale, grande esperto di servizi informativi, morisse proprio sotto le bombe alleate. Un'altra struttura sarebbe rimasta paralizzata, non quella dei Carabinieri talmente temprata da una centenaria disciplina da funzionare anche con un nuovo Comandante Generale, Angelo Cerica, appena transitato dalla milizia forestale fascista. L'unica domanda (dettata da un eccezionale scrupolo legalitario) che rivolse al capo di stato maggiore dell'esercito fu: "Siamo nel campo costituzionale o siamo fuori dalla legge?". L'ordine veniva dal re, e dunque la risposta alla domanda era assolutamente implicita. La polizia, troppo infiltrata da elementi fascisti, non era in quel momento giudicata affidabile. Il 24 luglio una drammatica seduta del Gran Consiglio del fascismo pose in minoranza il duce. Mussolini non si rese esattamente conto di quanto era accaduto e si recò senza timori a Villa Savoia per incontrare Vittorio Emanuele.
La prego di seguirmi!
All'ora del tè il sovrano, con fredda cortesia piemontese, informò l'ex dittatore che non gli avrebbe rinnovato l'incarico di presidente del consiglio dei ministri. Per Mussolini fu un duro colpo, ma il peggio doveva ancora venire. Mentre lasciava la villa fu avvicinato dal tenente dei Carabinieri Vigneri che lo invitò con ferma cortesia a seguirlo per proteggerlo dalla folla. Il cavaliere Mussolini tirò dritto verso la sua automobile, ma l'ufficiale gli sbarrò il passo, lo prese per un braccio e lo caricò sull'ambulanza che attendeva nel giardino. A 8.000 Carabinieri, di stanza nella capitale, fu affidato il compito di attuare il blocco simultaneo delle centrali radio e degli altri punti nevralgici. Nessuno ignorava che la reazione della divisione fascista M, dotata di carri moderni, e di 36 carri tedeschi Tiger a nord di Bracciano, avrebbe potuto capovolgere la situazione a favore di Mussolini. Alla notizia della caduta del fascismo, esplose la gioia della popolazione, che, per la verità, non incontrò alcuna resistenza da parte dei fedelissimi del vecchio regime. Il comandante delle SS a Roma, Friedrich Dollmann, raccontò con un misto di sorpresa, amarezza e disprezzo: "Aspettammo invano che i fascisti entusiasti convenissero all'ambasciata per consigliarsi e procedere alla conquista di Roma alla testa della divisione M. Non spuntò un solo moschettiere o commissario o agente di polizia, non spuntarono né Vidussoni. né Muti, né Scorza".
A parte questi stupori più apparenti che reali, non si poteva dire che i tedeschi fossero stati colti del tutto alla sprovvista. A Berlino erano giunti molti segnali che indicavano che la situazione a Roma stava precipitando. Lungi dal farsi irretire dai proclami di Badoglio sulla continuazione della guerra contro gli anglo-arnericani, il piano Achse (ascia o asse) prese rapidamente corpo. Dal Brennero calarono rapidamente numerose divisioni tedesche alla guida del maresciallo Kesselring. I governanti italiani prendevano tempo, paralizzati dal timore di una improbabile reazione fascista e da quello di una reazione popolare. Contemporaneamente sondavano gli alleati alla ricerca di un armistizio, per il quale venivano logicamente poste pesanti condizioni. Si giunse alla fine alla firma dell'armistizio di Cassibile. L'8 settembre il generale Eisenhower diramò da Radio Algeri il testo dell'armistizio, inchiodando Badoglio e la monarchia alle loro responsabilità.
6. L'Arma resta compatta.
Il momento richiedeva il massimo di sangue freddo, iniziativa e coraggio. L'Italia era infestata da reparti tedeschi, ma una decisa presa di posizione avrebbe complicato parecchio i piani nazisti. Invece vi fu un ambiguo appello a resistere ad attacchi da qualunque parte provenissero e vi fu una inequivocabile fuga del re e di Badoglio da Roma senza organizzare nessuna opposizione. Senza ordini superiori, senza una chiara direttiva, senza una gerarchia identificabile i reparti furono abbandonati a se stessi e reagirono di conseguenza: si sbandarono e furono catturati senza sforzi. Soltanto il Comandante Generale dei Carabinieri Reali, Cerica, ebbe il buon senso di diramare ai suoi 80 mila uomini l'ordine di restare sul posto e continuare comunque l'attività. L'Arma, nella crisi gravissima di uno Stato in dissoluzione, fece appello alla sua straordinaria disciplina interiore per restare unita. I tedeschi avevano ormai le mani libere. A Roma, la 3ª divisione Panzergrenadieren e la 2ª Fallschirmjäger del generale Franz Heidrich si mossero con rapidità teutonica per avvolgere la capitale. A sbarrare loro il passo erano rimasti soltanto i Granatieri di Sardegna, i Lancieri di Montebello ed i Carabinieri, espressione della più orgogliosa tradizione militare sabauda. Tra la Magliana e Tor Sapienza, due quartieri periferici di Roma, era schierata la divisione Granatieri di Sardegna, rinforzata dalla Legione Allievi dei CC RR. Erano ragazzi tra i 18 ed i 20 anni, guidati dal tenente colonnello Arnaldo Fralich, eroe del la Grande Guerra. In una ideale ripetizione dell'ultima guerra d'Indipendenza, queste reclute appena inquadrate in un battaglione erano chiamate a fermare gli esperti paracadutisti, induriti da cento battaglie, del generale Heidrich.
Era ormai notte quando presero posizione alla destra della basilica d San Paolo, ma alle 2 del 9 settembre l'ordine fu di spostarsi sulla Magliana per riconquistare il caposaldo n. 5 preso dai tedeschi. Protetti da lancieri e granatieri, ai carabinieri fu affidata la manovra di avvicinamento. Due pattuglie da combattimento tedesche furono sorprese e catturate. Un altro nucleo fu gagliardamente messo in fuga con le bombe a mano. Alle 5,40 scattò l'attacco alla posizione tedesca. I paracadutisti tedeschi, già 40 minuti prima avevano cominciato a far lavorare i mortai e le mitragliatrici, ma i soldati con la fiamma d'argento guadagnarono ugualmente terreno. Venti minuti dopo i tedeschi lanciarono un veloce contrattacco avvolgente ai danni della 4ªcompagnia, ma Frailich frustrò il tentativo con un'altra compagnia. I mortai tedeschi scagliavano granate senza sosta, ma alle 8,30 i carabinieri riuscirono a compiere un'ulteriore avanzata. Il numero di morti e feriti aumentava rapidamente e molti valorosi cadevano gridando "Viva l'Italia".
Il valore delle ore buie.
Alle 10 il caposaldo fu conquistato, ma i carabinieri non smisero di combattere per sloggiare i paracadutisti da altre posizioni. Solo alle 19,30 vi fu una pausa per ricevere il cambio da 200 uomini del gruppo squadroni carabinieri Pastrengo. Tra il 9 ed il 10 settembre divamparono violenti combattimenti difensivi ed ancora una volta i veterani tedeschi furono costretti a desistere. Il prezzo dell'onore fu di 17 morti e 48 feriti, alcuni gravi; la ricompensa una medaglia d'oro, una d'argento, una manciata di bronzo e 25 croci di guerra. A Monterotondo il battaglione parà del maggiore Gericke aveva l'incarico di catturare il comando dello stato maggiore dell'esercito, acquartierato nel castello Orsini. Gli italiani erano ai posti di combattimento e tre junkers ju-52 carichi di paracadutisti furono tirati giù dalla contraerea. Ma i tondi paracadute bianchi e violetti si aprirono lo stesso ed i soldati tedeschi attaccarono vigorosamente i caposaldi italiani con mortai ed armi controcarro. Le Breda dei carabinieri diventarono roventi negli accaniti scontri fuori del castello, testimone di pietra di un ennesimo assedio. Carabinieri come Giuseppe Cannata e Francesco Franzesini, usando con coraggio e maestria le loro mitragliatrici, provocarono pesanti perdite fra gli attaccanti. Solo alle 18 il maggiore Gericke e i suoi riuscirono ad abbattere il portone principale ed entrare nel castello, dove si trovarono intrappolati: con incredibile sangue freddo, il maggiore Gericke intavolò un negoziato con gli italiani, guadagnando il tempo necessario per far sapere ai difensori che Roma era ormai città aperta, cavandosi in tal modo d'impaccio.
Non furono pochi gli atti di valore, che non ebbero alcun rilievo pratico in quanto i tedeschi riuscirono comunque a disarmare gran parte delle forze ex-alleate e a prendere il controllo della penisola non liberata: ma gli episodi di eroismo testimoniarono lo spirito di ribellione della nuova Italia. I combattenti erano ancora inquadrati militarmente e indossavano le divise, ma potevano già essere considerati dei partigiani per la mancanza di un legame con un comando centrale. Il 10 settembre gli scontri continuavano a divampare, creando momenti di ansia per Kesselring, impegnato anche a fronteggiare lo sbarco alleato a Salerno di ventiquattr'ore prima. A Colleferro una tenenza di carabinieri tenne in scacco una colonna motorizzata. A Napoli una ventina di carabinieri catturò il presidio tedesco alla galleria Umberto I, mentre veniva attuata con successo la difesa della caserma Pastrengo e veniva conquistato il presidio tedesco di Palazzo Reale. La rabbia germanica era tale che il giorno 12 fu incendiato l'ateneo e un marinaio venne giustiziato nel rione Porto, dove fu attaccata la caserma: i 14 militi della stazione, per nulla intimoriti, svilupparono una testarda resistenza, che si esaurì soltanto con la fine delle munizioni. Era ormai arrivato il tempo cupo delle rappresaglie e gli sventurati prigionieri furono fucilati il giorno dopo a Teverola, in sprezzo ad ogni legge di guerra.
Una bomba al volo.
Non mancarono nemmeno episodi curiosi e paradossali. A Gattatico nella provincia di Reggio Emilia il solito reparto tedesco aveva ricevuto l'ordine di prendere la stazione, ma incontrò la resistenza di soldati italiani che non erano andati a casa. Il comandante del drappello germanico individuò un buon bersaglio e strappò la sicura della sua fida granata a stelo. La lanciò, con una parabola perfetta, contro la stazione, ma il carabiniere Giovanni Magrini riuscì a prenderla al volo e a rilanciarla al mittente. A Bolzano, Appiano e Trento furono pochi i carabinieri che il 9 settembre non spararono sugli ex-alleati. In alcuni casi soltanto l'intervento dei potenti carri Tiger ebbe ragione dei difensori. Altri episodi mostrarono come spesso dall'atto di valore isolato si passasse alla lotta partigiana vera e propria. A Bussolengo in provincia di Verona le SS circondarono la stazione dei Carabinieri, energicamente difesa dal maresciallo maggiore Giuseppe Bellini. Alle fine i militi dell'Arma furono fatti prigionieri, ma riuscirono a evadere. Molti di loro si rifugiarono sulle montagne, mentre Bellini e un altro commilitone furono deportati. Il capitano Salvatore Auriemma venne sorpreso dallo sfascio a Tolmino. I tedeschi riuscirono a catturarlo, ma lui ebbe la fortuna di uccidere la sentinella e di raggiungere i partigiani. Non vi restò a lungo perché, al termine di un difficile viaggio nell'Italia occupata, giunse a Roma dove si distinse nel fronte clandestino dei carabinieri. In Abruzzo fu il capitano Ettore Bianco a mettere in piedi una delle prime formazioni partigiane, la Bosco Martese.
Nei territori liberati al Sud l'attività dell'Arma non registrò interruzioni. Fin dai giorni dello sbarco alleato in Sicilia i Carabinieri Reali rappresentarono un indubbio fattore di stabilità e di continuità della legge e dell'ordine, anche nella repressione dei reati comuni. L'opinione pubblica straniera, spesso così incline a vedere i difetti della macchina statale italiana, rimase favorevolmente impressionata. La prima corrispondenza del Times dalla Sicilia (20 settembre 1943) diceva, fra l'altro: "I Carabinieri sono stati un forte e stabile fattore nel mantenere l'ordine; si sono tenuti interamente lontani dalle influenze del partito fascista". Due giorni dopo il ministro degli Esteri inglese Anthony Eden rispondeva così a una interrogazione dell'opposizione: "Perché usiamo i carabinieri? La Camera sa che essi non sono un'organizzazione di tradizioni fasciste. Al contrario essi esistevano in Italia molto tempo prima del regime. Supponiamo per comodità di discussione che non avessimo usato i carabinieri. Cosa avremmo dovuto fare? Avremmo dovuto impiegare almeno 10.000 soldati britannici per svolgere il loro compito, non altrettanto bene". Il 12 settembre si era costituito il Comando Carabinieri Italia Meridionale. Il 15 novembre il comando fu ribattezzato Comando Carabinieri Italia Liberata, con funzioni di Comando Generale e le sue competenze furono estese alle isole. Questo comando, guidato dal generale Giuseppe Pièche con il colonnello Romano dalla Chiesa come capo di stato maggiore, oltre a ricostituire la struttura territoriale dell'Arma al Sud e predisporre le unità per i territori di imminente liberazione, aveva il delicato incarico di coordinare la lotta clandestina dei carabinieri nell'Italia occupata. E’ proprio nel buio periodo dell'occupazione che i carabinieri scriveranno alcune delle pagine più significative della Resistenza.
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FONTE
Il sito ufficiale dell'Arma dei Carabinieri www.carabinieri.it