La conquista di Cufra
La campagna del
1930 sul Gebel cirenaico. — In Cirenaica il periodo di relativa
tranquillità, susseguito alla sottomissione dei capi ribelli Ornar el
Muchtar ed Hassan Redà, fu dì breve durata.
Già nell'ottobre 1929, i rapporti fra Ornar e il nostro Governo erano
ridivenuti assai tesi e poco dopo, l'8 novembre, anche la tregua d'armi
aveva fine, poiché i ribelli massacravano a tradimento una pattuglia di
nostri zaptiè a Gasr Beni Gdem.
Le nostre truppe
reagivano immediatamente il 16 novembre una nostra colonna investiva i dor di
Ornar e di Hassan. Alla fine del 1929, le ostilità erano riaperte in tutto
il Gebel cirenaico.
Nel frattempo, poiché ci erano giunte notizie di intendimenti amichevoli
dalla lontana oasi di Cufra, il Ministero delle Colonie aveva autorizzato
l'invio in quella regione di una missione sanitaria, affidata al capitano
medico dott. Brezzi. Ma la piccola carovana, composta di 42 uomini con
stazione radio e 118 cammelli, nei pressi di Gialo, era stata catturata dai
ribelli, il che, anche per le nostre vivaci reazioni aeree, aveva messo in
subbuglio anche tutta quella zona.
Alla fine del 1929, il Maresciallo Badoglio, riconquistato il Fezzan, dava
ordini energici per stroncare senz'altro la ribellione in tutta la
Cirenaica.
Nel marzo 1930, il generale Graziani, nominato vice governatore della
Cirenaica, giungeva a Bengasi e vi assumeva la dirczione delle nuove
operazioni.
Riorganizzata la circoscrizione territoriale e instaurati numerosi
provvedimenti di ordine civile, anche le forze militari venivano ordinate ed
accresciute corrispondentemente alle esigenze della situazione.
Nel marzo 1930, il nostro Corpo coloniale della Cirenaica era così
costituito:
2 battaglioni libici,
5 battaglioni eritrei,
5 squadroni savari,
2 squadroni meharisti,
3 squadriglie autoblindate,
1 compagnia confinaria autocarreggiata,
3 batterie,
4 squadriglie di aviazione.
I reparti libici, che
non davano ancora pieno affidamento, venivano gradualmente ridotti di
numero.
Nel giugno 1930, dopo una visita a gran parte della Cirenaica, il Ministro
delle Colonie, generale De Bono, confermava la sua approvazione ai concetti
e alle disposizioni prese dal maresciallo Badoglio e dal generale Graziani.
Primo provvedimento fu quello di raggruppare tutti gli accampamenti delle
popolazioni nelle vicinanze dei presidi, in modo da poterne esercitare un
sicuro controllo e da sottrarle alle azioni intimidatrici dei ribelli.
In secondo tempo, gran parte di tali accampamenti furono spostati verso la
Sirtica per allontanarli dall'influenza di Ornar el Muchtar. I campi vennero
circondati da reticolato, i pascoli controllati, la circolazione sottoposta
a misure di vigilanza speciali.
In terzo tempo, fu disposta la chiusura di tutte le zauie senussite,
i cui capi erano tutti, più o meno notoriamente, a noi ostili. Fu lasciata
la sola zauia di Giarabub, considerata luogo santo anche dai
musulmani non senussiti e delle altre fu poi ordinato anche il sequestro dei
beni, che servivano unicamente ad alimentare la ribellione.
Mentre si attuavano questi provvedimenti, venivano continuate nel Gebel
cirenaico le operazioni repressive contro gli ostinati aggrupparnenti
ribelli che non mancavano di recare disturbo alle popolazioni e ad alcuni
nostri presidi.
Nel giugno, fu eseguito un rastrellamento in grande stile nella zona
dell'Uadi el Mahaggia, nei cui pressi era stato segnalato il dor di
Ornar. Le nostre truppe della Sirtica furono concentrate, agli ordini del
colonnello Maletti, a el-Mechili e le truppe del Gebel, agli ordini del
colonnello Spatocco, sulla fronte Gerdes-Slonta-Caulan. L'azione, condotta
di sorpresa, ebbe esito felice. I ribelli, tuttavia, avvertiti in tempo,
riuscirono a sfuggire all'accerchiamento, ma dovettero abbandonare gran
parte delle loro cose e quasi tutti i viveri, il che rappresentò per essi
ben grave danno.
L'azione continuava nel luglio da parte di nostre colonne agli ordini dei
loro instancabili comandanti. Si ebbero vari scontri coi ribelli, che F8
agosto toccavano una grave rotta sull'Uadi es Sania, a nord di Tecniz. La
guerriglia, però non cessava e si protraeva sul Gebel sino alla fine del
1930.
Anche ad oriente, verso il confine egiziano, le genti della Marmarica,
specie gli Abeidat, dimostravano di volersi nuovamente sottrarre al nostro
controllo e allora il generale Graziani ordinava il loro radicale
trasferimento nell'occidente della Sirte, con una marcia di ben 1100
chilometri. Anche questo energico provvedimento diminuiva l'efficienza delle
forze di Ornar, che largamente attingeva uomini fra quelle popolazioni.
Concetti informatori dell'azione del generale Graziani. — L'azione
del generale Graziani per sedare la diffusa e ostinata ribellione in
Cirenaica così veniva riassunta sul Corriere della Sera:
Rodolfo Graziani ha visto la soluzione del problema nei termini più
semplici: disarmo delle popolazioni sottomesse, ritorno alla più severa
disciplina nei battaglioni indigeni, controllo diretto sull'attività dei
capi sottomessi. Se la ribellione ha le sue arterie vitali tra le
popolazioni sottomesse o cosiddette sottomesse, e se sono costoro che,
volenti o nolenti, riforniscono i ribelli di fucili, cartucce, viveri,
bestiame e denaro, bisognava ottenere il loro disarmo e il loro isolamento
dai ribelli, ponendole tutte sotto la vigilanza delle nostre organizzazioni
civili e militari.
Alcune migliaia di fucili sono state consegnate con le relative munizioni.
Il disarmo si è iniziato, ma non è ancora completo. Ogni arma sottratta al
sottomesso è un fucile di meno per il nemico.
Per i disertori e per tutti coloro che d'ora in avanti saranno sorpresi in
flagrante o accertata connivenza con i ribelli la giustizia sarà
inflessibile. Lo si è già dimostrato, sia nei giudizi verso i civili sia
verso gli ascari dei battaglioni.
Il controllo sui Capi.
Il terzo provvedimento attuato da Graziani riflette il controllo sui Capi.
La Cirenaica, a somiglianza di tutte le Colonie, ha molti Capi — a noi
fedeli o per interessi o per sentimento — che hanno prebende e assegni. La
politica coloniale ha le sue esigenze. Ma Graziani ha senz'altro « tagliato
i viveri » ai grandi e ai piccoli Capi.
La molla dell'interesse è efficace in qualunque latitudine. Graziani ha
convocato tutti i Capi arabi e ha tenuto loro un discorso chiaro e semplice,
presso a poco di questo tono:
«Tu, tal dei tali,
ricevi un pingue mensile. Tu ne hai un altro che è un po' meno notevole, ma
abbastanza lauto.
Voialtri tutti avete uno stipendio per la vostra fedeltà. Ma se questa fosse
completa e intera, voi vi mettereste all'opera con me per finirla con la
ribellione. Ebbene, se non lo farete non riceverete più nemmeno una lira, e
quando la ribellione sarà finita, quando mi avrete dato segni tangibili
della vostra opera per stroncarla, riavrete i vostri assegni e magari anche
gli arretrati. Andate pure».
In un secondo e
recente convegno di Capi arabi, Oraziani ha rincarato la dose facendo loro
sapere che egli non è uomo di mezze misure, che vuole assolutamente
instaurare la piena sovranità dell'Italia in Cirenaica e che ricorrerà,
occorrendo, alle misure più estreme pur di stroncare la ribellione. Quando
fosse necessario, si giungerebbe fino a imbarcare su alcuni piroscafi
noleggiati tutta la popolazione della Cirenaica — che in un territorio
grande tre volte l'Italia non raggiunge il numero della popolazione di
Palermo — concentrandola in qualche contrada italiana, pur di finirla con
questo stillicidio di milioni e di vite umane.
La giustizia in volo.
Infine, per non porre tempo in mezzo nell'applicazione della legge, Graziani
ha provveduto a rendere più rapida la giustizia, con una istituzione che è
destinata ad avere impiego anche presso altre Potenze coloniali: il
Tribunale aereo. Graziani ha pensato di servirsi dell'aviazione perché la
giustizia funzioni rapida e solenne nelle località ove il suo intervento
deve essere pronto e saggio. L'avvocato militare Olivieri, i giudici Bedendo
e Romano — due ex-combattenti valorosi e sereni — quasi tutte le mattine si
recano in volo nelle varie zone ove si debbono celebrare processi contro i
ribelli e i disertori. I magistrati indossano la toga e il processo si
svolge all'aperto, all'ombra dei boschi, nelle brughiere, con le più
rigorose norme di rito, con i difensori e gli interpreti.
Non si condanna a morte senza che le prove siano schiaccianti o la
confessione completa. Se vi sono dubbi, si assolve. Il Tribunale Speciale
per la difesa dello Stato da agli Arabi la sensazione che quegli uomini
chiamati a un duro compito, sotto la volta del cielo, sanno che al di sopra
di essi vi è Iddio che tutto vede e giudica. La severità, non disgiunta
dalla profonda giustizia, di tali processi ha trovato consenzienti le stesse
popolazioni, fra le quali è salda la convinzione che l'Italia non colpirà
mai gli inermi, e che la sua giustizia ha scopi esclusivamente di pace, con
vantaggio sia per gli indigeni sia per i colonizzatori. Gli stessi arabi
hanno chiesto di essere gli esecutori delle sentenze del Tribunale aereo.
Dopo la condanna a morte di quattro ribelli, — torve figure di delinquenti,
— le «daurie» di El Abiar hanno domandato di formare coi loro uomini il
plotone di esecuzione che doveva fucilare i condannati. Il Tribunale ha
acconsentito alla richiesta di questi fedeli sottomessi. Così i soldati
libici del 7° battaglione hanno voluto fucilare i disertori che erano
passati al nemico e che, catturati, erano stati condannati a morte, e i
«savari» dell'80 squadrone hanno chiesto di eseguire la sentenza di morte
contro un loro antico compagno, che aveva disertato rubando il moschetto al
tenente Capone, caduto in un recente combattimento.
L'arabo ha, per la sua millenaria esperienza, un culto eccezionale per la
giustizia e sa sottomettersi alla punizione quando ne riconosca tutta la
sacrosanta utilità. Graziani anche con qualche condono, applicato in casi
eccezionali, ha mostrato alle popolazioni che l'Italia sa perdonare davanti
al dubbio, ma sa condannare quando la pace delle contrade è in pericolo.
La reazione di Ornar Muchtar.
A questa serie di provvedimenti ferrei ma giusti del generale Graziani era
naturale seguisse la reazione nemica. Questo era stato messo in preventivo.
E infatti Ornar Muchtar, capo e condottiero dei dissidenti, ha in queste
ultime settimane manifestato la sua risposta di rappresaglia. La rabbia del
vecchio agitatore della rivolta si è sfogata prima di tutto, senza
spargimento di sangue, contro le linee telefoniche. Qua e là gli innocenti
pali di sostegno, rei di segnare il cammino della civiltà, sono stati
incendiati. Le pattuglie — è quasi superfluo annunziarlo — hanno prontamente
riattivato le comunicazioni. Più tardi è stato ripreso dai ribelli il
sistema delle rapine. Qualche tentativo negli abitati è stato prontamente
sventato dalla nostra polizia coloniale. Un paio di centinaia di armati, per
alleggerire la nostra pressione sul Gebel, si sono affacciati nel territorio
Auaghir, tentando piccole incursioni, prontamente sventate dalle nostre
colonne coleri che hanno inflitto perdite al nemico.
Oltre a queste forme di brigantaggio, Ornar Muchtar ha adottato misure di
carattere morale e politico. Prima di tutto ha fatto sapere alle popolazioni
sottomesse, che egli pretende, come prima, di riscuotere le decime sul
bestiame. Ha suggerito, in un suo proclama ai sottomessi, di distaccarsi dal
Governo italiano, oppure di dare armati da incorporarsi nelle file delle
formazioni nostre irregolari con l'intesa però di disertare poco dopo,
portando con sé fucili e cartucce. E siccome Ornar el Muchtar ha una
speciale predilezione per l'arma della cavalleria, ha suggerito che i
sottomessi si arruolino preferibilmente nel corpo dei «savari» (cavalleria
indigena) per portar via con loro i cavalli... dei quali il Capo dei ribelli
ha penuria.
Ai proclami si aggiungono le lettere dei Capi ribelli, i quali scrivono ai
Capi dei sottomessi — o come costoro vengono chiamati «i servi» del Governo
italiano — minacciandoli di morte e invitandoli a uccidere coloro che
lavorano alle nostre opere stradali. È evidente lo scarso effetto della
minaccia se continuano ad affluire alle imprese costruttrici delle strade,
senza incidenti, gli indigeni in cerca di lavoro, e se sulle strade già
iniziate le costruzioni proseguono e i cantieri fervono della sonorità dei
macchinari.
«O con noi o contro di noi».
Ad ogni buon fine i sottomessi — previo il disarmo che ormai procede
regolarmente — sono stati tutti concentrati nelle rispettive circoscrizioni
di Barce, Cirene e Derna, sotto la vigilanza delle nostre autorità militari
e civili.
Raccolti così presso le nostre fortificazioni, controllati in ogni loro
mossa, del tutto inermi, i sottomessi sono stati costretti a interrompere i
loro rapporti clandestini con i ribelli e a troncar loro le linfe di
alimentazione in viveri, decime, bestiame, cartucce e altro. Le «cabile»
delle tribù Abeidat e Abid, che sono le più sospette di connivenza con i
ribelli, sono vigilate da forti nuclei di nostri «zaptiè» e finora nessun
sintomo di contatto si è rivelato, anche perché con i nuovi ordini di
Graziani un qualsiasi tentativo del genere è punito con la morte.
L'effetto benefico di queste misure di sacrosanto rigore si è palesato
rapidamente. La massima di Graziani «o con noi o contro di noi» ha
indotto la maggior parte della popolazione a troncare ogni rapporto con la
ribellione. Vi è di più. Le popolazioni, a mostrare tangibilmente il loro
netto distacco dai ribelli e la loro incondizionata sottommissione al
Governo d'Italia, si sono decisamente messe contro i ribelli con atti di
giustizia sommaria, un po' troppo primitiva ma tuttavia molto eloquente.
L'avanzata su Cufra. — Dopo la nostra occupazione del Fezzan,
parecchi tra i capi ribelli erano fuggiti verso l'Algeria o verso la
Cirenaica.
Specialmente nella regione Taizerbo (a nord-ovest di Cufra) si erano
raggnippate mehalle di armati che continuavano ad effettuare razzie nei
territori circostanti.
Per colpire la predetta base di partenza delle razzie ai nostri danni, la
nostra aviazione il 31 luglio 1930 eseguiva un violento bombardamento di
quella località. I Capi, seguiti da loro armati, si spostarono allora
nell'oasi di Cufra.
Il Maresciallo Badoglio decideva, pertanto, di procedere anche
all'occupazione di Cufra, sempre nel concetto che il territorio coloniale
non può ritenersi pacificato finché anche una parte minima di esso sfugga al
nostro controllo.
Come operazioni preparatorie, venivano compiute ricognizioni dell'itinerario
Gialo-Bir Zighen: quest'ultima località distante 400 chilometri da Gialo e
200 da Cufra.
La ricognizione principale era compiuta dal maggiore Lorenzini con una
autocolonna di 32 macchine e 120 uomini, preceduta da una squadriglia di
aviazione. Quest'ultima, dopo aver constatato la presenza di pozzi numerosi
a Bir Zighen, raggiungeva il 26 agosto Cufra, di cui bombardava le località
di El Giof e di El Tag, causando grande panico. La colonna Lorenzini,
completata l'esplorazione, rientrava a Gialo la sera del 28 agosto, dopo
aver percorso in zona torrida ben 800 chilometri. Nella stessa località si
concentrava pure la squadriglia di aviazione, dopo un «raid» di 1.200
chilometri.
Costituito agli ordini del maggiore Buselli anche un raggruppamento
sahariano, formato su due gruppi, una sezione di artiglieria, una
squadriglia autoblinde, a somiglianza dei raggruppamenti sahariani impiegati
per la conquista del Fezzan veniva predisposta, con larghezza di mezzi, la
spedizione su Cufra.
Per i servizi logistici erano costituiti un autogruppo di manovra di circa
300 automezzi e una carovana di 3500 cammelli, con cammellieri tratti, per
la massima parte, dalla tribù dei Mogarba. Poco più tardi, la carovana
veniva portata alla forza di 7.000 cammelli.
Il territorio verso Cufra. — Ad est della carovaniera che da Murzuk
conduce a Gatrun e a Tummo, verso l'arcipelago delle oasi di Cufra, il
deserto è orribile e non trova riscontro neppure nell'Hammada el Homra. Da
Umm el Adham, a 34 chilometri a sud di Zella, e sino ad Uau el Chebir, non
vi è alcuna oasi intermedia, quindi né pascoli né acqua. Il terreno è
costituito da un orrido uniforme serir, alternato con zone dunose.
Uau el Chebir, visitata dall'esploratore Moritz von Beurmann nel 1862, primo
europeo che vi abbia posto piede, e successivamente dal nostro Petragnani e
dal maresciallo di alloggio Laurent Lapierre nel 1918, non è un paese e non
è neppure un luogo di accampamento stabile. Si tratta di una collina di
arenaria e pietra dura, isolata, ai cui piedi, verso sud, si estende lo
sconfinato deserto che conduce al Tibesti e al Sudan e che a nord, est ed
ovest è circondata da sistemi montuosi di natura vulcanica a terrazze, che
vanno digradando sino a raccordarsi coi monti Tubu.
Su questo colle, alto una quarantina di metri circa, sorge una zavia, grosso
edificio in pietra abbastanza ben costrutto, circondato da otto piccole case
di pietra e di fango adibite ad abitazione di senussiti.
Poco distanti dal colle sono tre piccole oasi con 8 pozzi e 500 palme da
datteri di ottima qualità: Zeituna, Zetata e Zavia. Ad un chilometro, in
basso, è una grande moschea, che le sabbie tendono ad invadere e a
seppellire, sorretta da colonne e cosparsa di nicchie le quali, nel passato,
furono loculi per i cadaveri dei sultani Tibbu.
A sinistra del colle è un monte alto circa 200 metri con gli avanzi di un
fortilizio costruito due secoli fa dai Tibbu Resciada, abitanti del paese,
dal quale furono poi scacciati dai Senussi invasori.
Uau el Chebir, che, come è noto, fu per il Senusso Mohammed el Abed il punto
strategico dal quale potè, indisturbato, sostenere la rivolta contro di noi
nel Fezzan, dista 600 chilometri da Cufra (el Giof), 1400 chilometri da
Tripoli e 950 da Bengasi.
A 105 chilometri ad est di Uau el Chebir ed a metà strada da Murzuk e
Taizerbo (Cufra), s'incontra l'altra oasi gemella, chiamata Uau en-Namus,
che ripete il suo nome dalla grande quantità di zanzare, non malariche, che
la infestano e che vi rendono la vita pressoché impossibile. In prossimità
dell'oasi, una delle più avanzate verso il Sahara, si trovano depositi di
natron e laghi salati descritti da Laurent Lapierre nel suo itinerario di
viaggio, in prigionia, dal Fezzan a Cufra.
L'Uau en-Namus, ricca di tamarindi e, verso nord, di pascoli, è molto
frequentata da beccaccini, passeri, tortore e gazzelle. Venne visitata e
descritta per la prima volta dal tripolino Mohammed el Tarhuni nel 1876, a
distanza di un decennio dalla scoperta di Uau el Chebir. Il terreno
dell'oasi è prevalentemente salino; ma l'acqua vi è abbondante se pur
salmastra e popolata da sanguisughe. L'oasi fu abitata fino al 1918 da
personale addetto alla custodia dei greggi del Senusso. Da Uau en-Namus alla
più vicina oasi dell'arcipelago di Cufra corre una carovaniera di circa 300
chilometri.
La conquista di Cufra. — Sempre nella loro opera Le guerre coloniali
dell'Italia, i generali Cablati e Grasselli così hanno descritto
l'importante spedizione:
II corpo di spedizione per Cufra veniva così costituito:
Comando spedizione: comandante generale Ronchetti — comandante in 2a S. A.
R. il Duca delle Puglie;
forze aeree — comandante: ten. colonnello Lordi;
forze cammellate — comandante: ten. colonnello Maletti;
mezzi autocarreggiati — comandante: maggiore Lorenzini;
base di Agedabia — comandante: colonnello Marinoni.
Le forze aeree constavano di 20 apparecchi, con rifornimento completo per
otto giornate di volo, a cento ore giornaliere, e con dotazione di 1.400
bombe di lancio, oltre alle mitragliatrici di bordo. Le forze cammellate
comprendevano:
a) il raggruppamento sahariano della Cirenaica, su 2 gruppi, e una sezione
artiglieria cammellata (in totale 20 ufficiali, 20 pezzi);
b) un gruppo sahariano della Tripolitania, su 3 plotoni di 100 uomini l'uno;
c) il gruppo di irregolari Mogarba (100 uomini), tutti con 40 giornate di
viveri e 8 giornate di acqua.
I mezzi autocarreggiati erano:
a) una squadriglia autoblindomitragliatrici;
b) un reparto speciale «Fiat» di 220 autocarri con materiali vari.
Il concorso delle truppe della Tripolitania venne cosi stabilito dal
Maresciallo Badoglio: 1 gruppo sahariano, 1 squadriglia autoblinde, 1
squadriglia di aviazione.
Il 20 dicembre 1930, la colonna, pronta nei mezzi e negli spiriti, partiva
da Agedabia verso il suo lontano obiettivo.
A Cufra prevaleva intanto l'idea della resistenza, e veniva troncato ogni
traffico con Gialo. Gli armati erano segnalati in circa 600, elementi locali
provvisti largamente di munizioni e di rifornimenti vari, alimentati da
continue carovane affluenti dal confine egiziano. Pervenivano poi ai Capi
arabi calorosi incitamenti da parte del Senusso Hamed el Scerif. Cufra era
l'ultimo rifugio e l'ultima speranza della Senussia.
Il percorso dell'intera colonna da Agedabia a Gialo fu compiuto col criterio
di articolare la massa in gruppi, disimpegnando il movimento degli automezzi
da quello delle altre truppe. La spedizione venne perciò suddivisa in tre
colonne minori: ten. colonnello Maletti (raggruppamento sahariano e centuria
irregolare Mogarba); maggiore Lorenzini (I squadriglia autoblinde,
autodrappello comando truppe mobili, plotone genio autocarreggiato);
maggiore Rolle (carovana generale cammellata con centuria eritrea e plotone
zaptiè).
Le colonne, superando una furiosa tempesta di pioggia e di sabbia di due
giornate consecutive, raggiunsero Gialo entro la sera del 1° gennaio 1931.
La marcia fu proseguita nei giorni seguenti nella speciale caratteristica
formazione a losanga usata nel deserto, con sbalzi successivi delle
autocolonne, inoltrandosi sempre più verso il sud e raggiungendo con tutti
gli elementi Bir Zighen, previa ricognizione aerea, entro la giornata del 9
gennaio. Non furono perduti che un centinaio di cammelli, sui 3.500 partiti
da Gialo.
Bir Zighen era sgombro, e tali apparvero anche le oasi di Taizerbo; era
ormai certo che lo scontro coi difensori si sarebbe verifi-cato sulle alture
di El Hauari, a pochi chilometri da El Tag, giacché i ribelli molto
confidavano sul nostro rallentamento e sulla difesa delle dune mobili, che
circondano Cufra per un raggio di oltre 150 chilometri.
Il 12 gennaio 1931, il gen. Graziani si trasferiva da Bengasi a Bir Zighen
con la massa degli apparecchi di aviazione e prendeva l'effettiva dirczione
dell'operazione.
Il mattino del 14 gennaio, le colonne Maletti e Campini, con le truppe della
Tripolitania provenienti da Uau el-Chebir, riprendevano il movimento verso
sud, intervallate di circa 80 chilometri, e con itinerari man mano
convergenti. Il collegamento fra le due colonne era mantenuto a mezzo di
aerei. In previsione dell'azione tattica, il giorno 18 la colonna Campini
passava alle dirette dipendenze del ten. colonnello Maletti.
La zona dell'oasi veniva avvistata dagli aerei il mattino dello stesso
giorno 18, e risultava la presenza di gruppi nomadi, accampamenti e cammelli
nei pressi di El Giof; nel restante delle oasi tutto sembrava pacifico e
normale. Uno degli aerei però rientrava da El Giof con le ali ripetutamente
colpite.
A Cufra si ignorava ancora l'avvicinarsi della nostra spedizione; si pensava
solo al gruppo sahariano della Tripolitania e si nutriva la speranza di
respingerlo senza difficoltà coi 500 armati disponibili.
La ricognizione aerea del mattino del 19, guidata personalmente dal Duca
delle Puglie, non aveva in primo tempo segnalato nelle oasi nulla di
sospetto; le colonne Maletti e Campini, procedendo di conserva, stavano
gradualmente annullando il loro distacco, quando, verso le ore 10, un aereo
segnalava circa 400 armati che, superato il margine nord dell'oasi di
El-Hauuari, si dirigevano rapidamente contro la colonna Canapini, che —
avvertita — assumeva formazione di combattimento.
Si iniziò l'azione tattica, mentre il ten. colonnello Maletti prendeva la
mehalla araba tra due fuochi. I ribelli, allargando l'ordinanza, tentarono
la consueta manovra avvolgente per le ali; ma, ributtati dovunque con
energici contrattacchi, subirono gravi perdite e dovettero cedere terreno,
tramutando poi la ritirata in fuga disordinata verso El Tag ed El Giof.
Quest'ultima località veniva alle 12,30 raggiunta dalla squadriglia
d'aviazione con otto apparecchi, che effettuarono sulle oasi un efficace
bombardamento e un intenso mitragliamento. L'azione tattica era durata dalle
10 alla 13.
La mehalla ribelle, quantunque di fronte a forze impreviste e superiori si
fosse battuta con audacia e valore, lasciò sul terreno un centinaio di
morti, compresi alcuni Capi, 13 prigionieri, un centinaio di fucili e casse
di munizioni. Noi avemmo due ufficiali uccisi (ten. Helzel e ten. Pipitene),
2 ascari uccisi e 16 feriti.
Il giorno 24, con una traversata fortunosa di 2.000 chilometri di deserto,
giungeva in volo da Tripoli il Maresciallo Badoglio, che alla presenza del
Duca delle Puglie, innalzava sulla zauia di El Tag il vessillo tricolore.
I ribelli si disperdevano verso il confine egiziano e verso il Tibesti.
Venne subito ordinato che la nostra aviazione li inseguisse ad ondate; e
mentre il 3° gruppo sahariano della Tripolitania ripuliva l'oasi di El Giof,
tre plotoni venivano lanciati all'inseguimento dei ribelli. Dovunque erano
tracce di fuga disordinata e precipitosa e terreno seminato qua e là di
cadaveri; complessivamente i ribelli ebbero 200 uccisi e perdettero 150
fucili; vennero inoltre in nostro potere i depositi di armi e di munizioni
di El Tag e di El Giof, 3 mitragliatrici e 3 cannoni.
Così cadeva il rifugio senussita di Cufra, che oggi può tranquillamente
essere raggiunto da Bengasi in sei giorni di auto o in sei ore in aeroplano.
L'occupazione a viva forza di Cufra fu indubbiamente la più vasta e
complessa fra le operazioni sahariane che, con quelle della Ghibla,
dell'Hammada e del Fezzan, conferisce all'Italia un indiscusso primato nelle
imprese desertiche, conseguito per virtù di una organizzazione esemplare e
del perfetto inquadramento delle unità sahariane. Nel luglio 1931, il
Ministro delle Colonie generale De Bono visitava Cufra, partendo in volo da
Roma per Bengasi; e di qui alla Mecca senussita, rientrando poi a Roma, dopo
di avere brillantemente percorso un « raid » di 5000 chilometri di volo in
soli sette giorni.
L'occupazione di Cufra costituì un formidabile colpo al prestigio della
Senussia e portò una profonda demoralizzazione fra i ribelli che ancora
combattevano sul Gebel: Ornar el Muchtar cercò con tutti i mezzi di tenere
nascosto l'avvenimento ai suoi seguaci.
Ma la questione che più interessava la Senussia era quella confinaria con
l'Egitto, dal quale essa traeva continuamente alimento e forza. Il governo
della Colonia abolì il punto franco di Bardia e proibì l'esportazione in
Egitto per via di terra, consentendola solo per mare; ma ciononostante la
speculazione affaristica non era frenata e la ribellione continuava ad
essere alimentata. Il generale Graziani pensò allora di chiudere
materialmente il confine con l'Egitto mediante un forte reticolato, corrente
per 300 chilometri da Bardia a Giarabub, in zona perfettamente desertica:
senza sottrarre forze notevoli per la effettiva sorveglianza del confine si
contribuiva così assai validamente allo stroncamento della ribellione. Il
nostro energico atteggiamento induceva allora il Governo egiziano ad
intimare a Sidi Idris el Senussi di abbandonare qualsiasi opera di
favoreggiamento ai fuorusciti libici.
I particolari della conquista nel racconto di Sandro Sandri. — Sulla
conquista di Cufra dava interessanti particolari sul Popolo d'Italia Sandro
Sandri, il valoroso giornalista caduto in Cina:
Questa narrazione del combattimento di Bu Alla è quanto mai arida e assume i
caratteri d'un rapporto militare.
Ho voluto, di proposito, darle un contenuto spoglio di immagini retoriche e
mi sono limitato ai particolari più veridici, allo scopo di rendere, quanto
più mi fu possibile, essa narrazione conforme allo stile di questa nostra
gente che qui si batte per la Patria e poco parla delle gesta che compie.
Le truppe che al comando del ten. colonnello Maletti hanno portato a
compimento l'azione di Bu Alla, hanno compiuto prodigi di valore, non solo,
ma dimostrarono una resistenza eccezionale alle aspre fatiche della guerra
nel deserto che ha aspetti particolarissimi.
La mehalla di Salah-bu-Creim, in marcia nelle immense piane del sud,
costituiva un punto minuscolo nell'immensità, e, da tre punti diversi,
guidate dalla aviazione e dalla radio, le nostre truppe conversero su di
essa e l'annientarono dopo giornate di marcia faticosissima e un aspro
combattimento.
Gli indigeni delle grandi oasi parleranno lungamente di esso nelle loro case
di fango, sotto le tende e all'addiaccio sulle grandi carovaniere del sud.
La disfatta degli zueia segnerà forse un mutamento politico nel dominio di
Cufra e il ricordo pauroso di essa ingigantirà la opinione della potenza
dell'Italia nelle menti di questa gente lontanis-sima dalla civiltà.
Per noi fu, e rimane, un'operazione di polizia in grande stile, e — nel
contempo — un episodio stupendo della nostra marcia alla conquista delle
grandi oasi del Sud.
Dalla lontana oasi sahariana di Cufra ai primi giorni dello scorso dicembre
gli zueia decisero di partire verso la costa per avvicinarsi ai nostri
presidi e razziare del bestiame che li avrebbe arricchiti.
Da elementi da me raccolti nella zona sahariana delle oasi, e appresi dal
nostro interprete Fornari, reduce da Cufra dopo peripezie romanzesche
attraverso l'oasi egiziana di Siva, le origini di questa strana e inconsulta
mossa dei dissidenti vanno ricercate un poco nella miseria in cui versano,
molto nella speranza che il colpo di testa avrebbe avuto una sicura riuscita
senza pensare che dovevano penetrare nel cuore della nostra organizzazione
militare dopo aver percorso circa ottocento chilometri di assoluto deserto.
Gli zueia di Cufra sono gentaglia dedita al predonaggio e al furto, che
esercitano anche nel vicino Borcu francese giungendo sino alle montagne del
Tibesti; un tempo calavano a Gialo, a Gicherra, ad Augila a razziare, specie
dopo la raccolta dei datteri.
Dopo la nostra occupazione delle oasi del 29° parallelo non si erano più
fatti vedere.
Questa loro spedizione in grande stile doveva portarli nientemeno che nei
pressi di Agedabia: piano pazzesco e suicida.
Il terreno che intercorre fra Gialo e Cufra è poco conosciuto da noi.
L'esploratrice inglese Rosita Forbes, che 10 percorse nel 1920, ce lo
descrive quale uno spaventoso tavoliere arido e giallo che si stende per
oltre quattrocento chilometri, oltre i quali cominciano le dune mobili in
cui l'arcipelago delle grandi oasi di Cufra emerge dal mare sabbioso come
una strana macchia verde.
L'interprete Pomari, che lo percorse nell'ottobre dell'anno scorso, non muta
di una linea la descrizione della Forbes.
Le carovane, che da Gialo salpano verso Cufra, ci impiegano una ventina di
giorni a raggiungere la città sahariana; la mehalla degli zueia marciò
veloce e in quindici giorni raggiunse l'oasi di Gicherra dove razziò del
bestiame, rapì delle femmine, rubacchiò dei datteri, si rifornì d'acqua e
ripartì. Tutti credevano ritornasse verso Cufra, mentre invece si diresse
verso Agedabia marciando a grandi giornate.
La nostra aviazione la scoprì il 16 gennaio annidata fra gli anfratti
dell'Uadi Magar.
Questo uadi occupava una vasta zona di terreno inverosimilmente rotto e
difficile dove le rare piogge, attraverso i secoli, vi hanno eroso il
terreno piatto che appare sprofondato in parte e da cui emergono, quali
funghi enormi, un'infinita serie di rocce incappucciate di terra gialla che
danno al terreno un aspetto unico e stranissimo.
La mehalla sostò nel labirinto roccioso alcuni giorni.
I nostri aviatori ne valutarono le forze: circa 500 armati tutti a piedi e
seguiti da una carovana di circa 150 dromedari; si seppe poi che era
comandata dal noto capo beduino Salali bu Craim.
Nello stesso giorno il ten. colonnello Maletti, comandante la zona delle
oasi, assumeva
11 comando delle truppe destinate ad operare contro la mehalla ed aventi il
compito di annientarla.
Il 17 queste iniziarono la marcia.
Da Gialo si mosse il «gruppo delle oasi», composto del 16° Eritreo, da una
compagnia del 13° Eritreo e dal 4° squadrone Meharisti, seguiti da una
carovana di 150 dromedari.
Da Soluch partì il gruppo autoblindate Torelli, composto da 400 eritrei del
15° montati su autocarri, da cinque autoblindate e da una batteria da 70 da
montagna autocarrata.
In Agedabia, nel frattempo, il gruppo Paladini, composto dal 1°, 2° e 3°
Meharisti e dalla banda irregolare Mogarba, si accingeva a partire.
La mattina del 17, i nostri «S.V.A.», lasciato il campo di fortuna di Gialo
per una ricognizione, segnalavano al ten. colonnello Maletti che la mehalla
aveva ripreso la marcia spostandosi verso ovest, cioè andando incontro alle
nostro truppe in marcia e accennava a voler lasciare l'intricato terreno
posto fra le uidian Magar e Huseini di cui ho dianzi parlato.
La sera del 17, il « gruppo delle oasi » raggiungeva Augila, mentre il
gruppo delle autoblindate Torelli si accampava a una quindicina di
chilometri a nord-est di Hasciat.
Per valutare l'importanza di questa azione svoltasi sull'immenso tavoliere
del sud ben-gasino è necessario avere un'idea delle distanze che dividevano
i gruppi in marcia collegati dall'aviazione e dalla radio.
Alle prime ore del mattino 18 gennaio, il ten. col. Maletti col suo gruppo
lasciava Augila puntando su Garet el Melali che ne dista circa 150
chilometri, mentre il gruppo delle auto blindate, al comando del maggiore
Torelli, si aggirava al largo del nostro presidio di Sahabi diviso dal
«gruppo delle oasi» da circa duecento chilometri di distanza. Il «gruppo
Paladini» attendeva sempre ordini in Agedabia, posta, come è noto a circa
250 chilometri da Augila e a centocinquanta da Sahabi.
Questi tre gruppi dovevano convergere, guidati dall'aviazione, sulla
«mehalla degli zueia», di cui si conosceva la direttrice di marcia che
poteva mutare direzione di ora in ora.
Molto opportunamente il tenente colonnello Maletti attendeva inoltre che
l'avversario lasciasse la zona delle uidian e delle dune per sorprenderlo
nel tavoliere piano dove le autoblindate avrebbero potuto manovrare a loro
agio.
La zona delle uidian è priva di pozzi, di modo che gli zueia, esaurite le
loro risorse d'acqua, dovevano forzatamente mettersi in marcia.
Nel pomeriggio del giorno 18, verso le 15, l'aviazione riferì ai nostri
gruppi in cammino che il nemico, levate le tende e caricati i dromedari,
tornava sui suoi passi in direzione di est.
La mehalla fuggiva. I nostri iniziarono l'inseguimento. Alle ore 19 — era
caduta ormai la notte — questo fu sospeso e il tenente colonnello Maletti si
accampava in pieno deserto vietando l'accensione dei fuochi per non svelare
con questi la presenza del gruppo all'avversario.
Così passò la notte dal 18 al 19.
La mattina del 19, un nostro «S. V. A.» atterrava nei pressi del «gruppo
delle oasi» e ripartiva poco dopo con l'ordine di dirigere il gruppo Torelli
su Gara Arida e di farlo proseguire, se non avesse incontrato resistenze,
verso Hatiet el Uesceca, località che il Maletti contava di raggiungere al
tramonto dopo settanta chilometri di marcia.
Al gruppo Paladini » veniva ordinato di portarsi a Sahabi.
La tenaglia si stringeva.
Da tre punti diversi i nostri tre gruppi, divisi da un centinaio di
chilometri di distanza rispettivamente, convergevano verso la regione degli
uidian, dove il nemico disorientato cercava di ritornare sui suoi passi.
La giornata del 19 gennaio fu impiegata a compiere l'accennato movimento.
Il gruppo Maletti, la sera del 19, raggiungeva l'obiettivo e sostava, mentre
il gruppo Torelli, dopo aver lottato tutta la giornata a disincagliare le
macchine che affondavano nelle sebche, si accampava a dieci chilometri da
esso in modo da poter stabilire un collegamento con pattuglie di meharisti.
Il gruppo Paladini aveva raggiunto Sahabi.
Prima che tramontasse il sole, l'aviazione riferì che il nemico era fermo a
una quindicina di chilometri da Gara Mesciarreca, ma il ten. col. Maletti
pensò che nella notte esso avrebbe raggiunto le dune esistenti in detta
località trincerandovisi.
Il «gruppo delle oasi», sicuro di incontrare l'avversario nella giornata del
20, si accampò nella conca di Hatiet el Uesceca e Maletti dispose che, alle
prime luci del giorno, l'aviazione avesse guidato i gruppi sulla mehalla,
che trovavasi ormai a una ventina di chilometri dal raggio d'azione dei
nostri.
La giornata del 20 avrebbe deciso l'azione e nella notte nessuno dormì.
Prima che il giorno spuntasse, il colonnello Maletti, col suo «gruppo delle
oasi», si mise in cammino.
Alle 4 del mattino la lunga colonna uscì dalla conca e iniziò la marcia
puntando direttamente su Gara Mesciarreca.
Alle sette del mattino, dopo tre ininterrotte ore di cammino, il gruppo
sostò in un avvallamento in attesa delle segnalazioni aeree che tardarono a
causa di un banale incidente occorso a uno «S.V.A.» e alle 7,45 la marcia
veniva ripresa. Alle otto fu intersecata la traccia di una cinquantina di
ribelli in marcia verso sud-est, ma i nostri non la seguirono ritenendo che
il pattuglione, con questa sua diversione, tentasse di distogliere i nostri
dall'inseguire il grosso.
Alle 8,15 i meharisti incontrarono le prime resistenze a due chilometri a
sud di Gara Mesciarreca. Le prime fucilate, lontanissime, investirono le
pattuglie che appiedarono bravamente avanzando.
L'avversario non si vedeva.
Il terreno dunoso e rotto occultava alla vista dei nostri i fucilieri
beduini che continuarono il fuoco investendo il gruppo di fronte, ai lati, e
alle spalle per dare l'impressione dell'accerchiamento. Ma Maletti ordinò
che si marciasse risolutamente su Gara Mesciarreca e gli ascari balzarono
all'assalto risalendo le dune e travolgendo la resistenza nemica con furore
diabolico.
Alle 9, la posizione era occupata; fra i sabbioni furono trovati otto
cadaveri e, fra questi, quello di un nostro informatore defezionato, certo
Agheila bu Adeima.
In questo momento apparve lo «S. V. A.» proveniente da Gialo che era stato
atteso due ore prima; segnalò una cinquantina di ribelli in fuga verso
sud-est a una distanza di una diecin-a di chilometri e, poco dopo, apparvero
nel ciclo limpido due «Caproni 73» i quali, scoperta la mehalla, iniziarono
un furioso lancio di grosse bombe e di fumate che segnalarono al gruppo la
posizione esatta del nemico.
Maletti lanciò il 4° squadrone Meharisti in dirczione degli scoppi e delle
fumate degli aeroplani con il compito di impegnarsi a fondo e di trattenere
l'avversario in attesa del 16° Eritreo che, correndo, iniziò la marcia.
Avvenne -allora una singolare gara di velocità fra i meharisti e gli
eritrei, i quali, con superbo slancio, percorsero oltre dieci chilometri di
corsa, di modo che il 4° squadrone Meharisti, impegnatesi alle 11,30, veniva
raggiunto subito dopo dal 16° Eritreo.
Mentre la battaglia ferveva fra i monticelli sabbiosi e i cespugli di
sterpi, l'aviazione segnalava la posizione degli altri gruppi: Paladini a 15
chilometri di distanza dal campo d'azione; Torelli, impantanatesi nelle
sebche con i suoi autocarri, stava nei pressi di Guerat el Maiali,
immobilizzato.
Il nemico occupava un fronte di circa due chilometri ed era disposto a
semicerchio; si vedevano i baracani bianchi sventolare fra i macchioni di
sterpi e si potevano distinguere i tiratori zueia dietro i monticelli di
sabbia in bell'ordine di combattimento.
Una mezza compagnia d'avanguardia, al comando del tenente Della Valle, si
affiancò a sinistra dei meharisti e il fuoco divenne violento e serrato.
La nostra linea di fuoco era molto rada; a mezzogiorno la sola mezza
compagnia e i meharisti tenevano il fronte di attacco, mentre il resto delle
nostre forze era tenuto occultato alla vista del nemico.
Questa manovra ingannò gli zueia.
Credendo di avere di fronte i soli ascari della linea di fuoco e stimandoli
poco numerosi, uscirono dai loro appostamenti avanzando con urla selvagge.
Il tenente colonnello Maletti fece allora avanzare la compagnia
mitragliatrici del 16° Eritreo disponendola parte al centro, parte
all'estrema destra e, le ultime due armi, all'estrema sinistra della linea.
Il nemico, favorito dal terreno, avanzava sparando e minacciando con
altissime grida, incurante del nostro fuoco di fucileria regolare e calmo.
Dietro gli armati, i quali potevano essere circa 400, avanzavano altri
ribelli senz'armi; questi avevano il compito di tenere alto il morale dei
primi gridando incessantemente: La ilaha, illà Allah Mohamed Raisul
Allah! (Non c'è altro Dio che Dio e Maometto è il suo profeta).
Quando furono giunti a qualche centinaio di metri di distanza, le
mitragliatrici entrarono in azione contemporaneamente, con un baccano che
superò le grida che, del resto, cessarono di colpo.
La linea nemica s'arrestò di botto sorpresa e sconcertata. Quella musica
davvero non ci voleva.
Si videro degli armati alzare il fucile, altri gettarsi bocconi, ma fu un
attimo, tutti cercarono un possibile riparo dietro i monticelli di sabbia e
i cespugli. Quali sacchi di stracci bianchi i morti, immobili nella sabbia
gialliccia, dimostrarono l'efficacia delle mitragliatrici.
Fu allora che la nostra linea di fuoco fece Un balzo in avanti, poi un
secondo, poi un terzo.
Gli eritrei prepararono le loro scimitarre che scintillarono al sole: gli
zueia indietreggiarono correndo, ma si ripresero cercando una diversione a
sinistra prontamente rintuzzata dal 16° Eritreo che entrò in scena con la
solita bravura inchiodando l'avversario a una disperata difesa.
Poco dopo le 13 il nostro assalto scattò veloce.
Gli Eritrei corsero addosso agli zueia brandendo le loro spaventevoli
sciabole ricurve e ne fecero scempio. La fuga degli scampati avvenne in
direzione dell'uadi Magar.
Intanto il maggiore Torelli aveva fatto miracoli sguinzagliando tutti i suoi
uomini in cerca di cespugli e costruendo con essi delle fascine sulle quali
le autoblindate e gli autocarri erano penosamente usciti dal pantano salato
della sebca e alle 13,45, avvertito dal ten. col. Maletti sulla direzione
presa dai fuggiaschi, si lanciava al loro inseguimento puntando su Bu Alia,
dove supponeva che fra quelle grandi dune andassero a rifugiarsi gli zueia.
Non aveva sbagliato.
Quando la colonna autocarrata e le autoblindate apparvero, si videro le dune
gialle popolarsi di nemici.
Questi non avevano mai visto in vita loro delle autoblindate e le credettero
una colonna di rifornimento degli ascari del 16° da cui erano stati battuti
un'ora prima.
Avidi di ottenere una rivincita e desiderosi di vendicarsi, marciarono
incontro alla colonna che li attese anche perché alle autoblindate non era
possibile manovrare fra le dune mobili.
Quando però distinsero gli ascari del 15° scendere dagli autocarri, si
fermarono titubanti ma ormai erano perduti.
Mentre il maggiore Torelli, con una rapida diversione, circondava la zona
dunosa prendendoli alle spalle, il capitano Gino Gappabianca, comandante
interinalmente il 15° Eritreo, si lanciava all'assalto alla testa dei suoi
eritrei.
Gli zueia resistettero fin che poterono.
Combatterono bravamente, da duna a duna, seminando il terreno di cadaveri,
ma cacciati dall'impeto dei nostri, finirono nella piana, dove, alle loro
spalle, si distinguevano le autoblindate del maggiore Torelli avanzare,
minacciose e implacabili.
Allora, forse più per incoscienza che speranzosi d'un successo, si diressero
risolutamente verso le autoblindate.
Tutta la loro resistenza disperata si concentrò su queste, verso le quali
diressero il loro fuoco, meravigliandosi che non si fermassero, attendendole
a pie fermo e gettando poi il fucile, di fronte al mistero di quelle
mostruose testuggini che correvano loro addosso incuranti del loro fuoco.
Alle 16, la fuga disordinata, completa, pazzesca, era in atto.
Le autoblindate, al tramonto, raggiungevano l'uadi Magar, dove, nel
labirinto dei funghi di pietra e di terriccio, rastrellavano alcuni
prigionieri terrorizzati, fra cui alcune donne, quelle stesse che gli zueia
avevano prelevato a Gicherra; altri sbandati andavano a cadere fra i
meharisti del gruppo Paladini che li tagliavano a pezzi dopo brevi
scaramuccie.
Al crepuscolo tutto era finito.
Pochi zueia, pazzi di terrore in maggior parte feriti, fuggivano verso
Cufra, distante circa settecento chilometri, dove si dubita siano giunti a
raccontare la disfatta a quegli stessi capi che alla loro partenza l'avevano
predetta.
I nostri seppellirono i caduti.
Tramontava quando gli Eritrei diedero l'estremo saluto ai loro compagni
caduti sul campo.
Fu una cerimonia semplice e piena di suggestività, che si svolse in uno
scenario irreale, nel deserto sconfinato, illuminato dai raggi cadenti d'un
sole rossastro, che moriva a ponente in una fantasmagorica festa di
bagliori.
Poi fu subito notte: si accesero i fuochi e gli ascari si misero a cantare a
gruppi, incuranti dell'atroce stanchezza.
Un ufficiale nostro, ferito alle 13, moriva al crepuscolo, da eroe,
consapevole della sua fine, dimostrando serena e nobile fermezza d'animo.
Si chiamava Giacomo Bacchin e apparteneva alla compagnia mitragliatrici del
16° Eritrei.
Quando gli zueia avanzarono, egli comandava la sezione di centro della linea
di fuoco ; fu colpito da una pallottola che, dopo essergli penetrata in una
spalla, finì a conficcarglisi in un polmone.
Cadde vicino alla sua arma e fu portato al posto di medicazione dai suoi
ascari.
Passando vicino al ten. col. Maletti, questi si felicitò con lui per il suo
contegno esemplare in combattimento e lo rincorò. Rispose sorridendo:
— Mi faccio medicare e torno subito in linea. Mi dispiace più di lasciare
la mia mitragliatrice che di essere ferito.
Testuali parole, degne veramente di un soldato d'Italia.
Sul campo fu trovato il cadavere di Salah bu Creim comandante la mehalla.
Salah bu Creim aveva avuto una vita avventurosa capeggiando razziatori sulle
carovaniere e distinguendosi come capo ladrone nelle oasi sahariane.
Caddero numerosi altri Capi.
Il numero dei morti zueia, potuti contare, fu di 260, ma si possono
calcolare oltre i 300 anche per concorde dichiarazione dei prigionieri,
circa una cinquantina, comprese le femmine.
Furono potuti rintracciare 190 fucili, si contarono 88 dromedari morti e 18
furono catturati.
Queste cifre sono certamente inferiori alle vere, soprattutto perché molti
sbandati finirono nelle scaramuccie con i meharisti del gruppo Paladini, che
alle 18 — il sole era già tramontato — combatteva ancora.
Si ha poi l'esempio di feriti gravissimi i quali percorsero diecine e
diecine di chilometri pur di salvarsi.
Il notabile di Cufra, Abdurrain bu Beder, capo di 50 armati della mehalla,
sebbene mutilato di un dito della mano sinistra e col torace perforato da
una nostra pallottola, percorse a piedi, senza prender cibo, gli ottanta
chilometri che separano Bu Malia da Gicherra, ove fu da noi catturato in
quello stato.
Ora è nostro prigioniero ed è già completamente guarito.
Le nostre ricognizioni eseguite dalle autoblinde, che si spinsero per cento
chilometri oltre Gialo, non trovarono anima viva.
La mehalla del capo predone Salah bu Creim era partita da Cufra cantando,
sicura di riportare un ricco bottino e finì tagliata a pezzi dopo avere
sperimentato la furia degli Eritrei e aver conosciuto il mistero delle
autoblinde, le quali — disse un prigioniero — più tu gli spari contro e
più ti corrono addosso senza misericordia, come se Dio non esistesse e
Maometto non fosse più il suo unico profeta.
L'importanza della conquista di Cufra. — L'occupazione di Cufra
recava un grave colpo anche ai ribelli che si ostinavano a resistere nel
Gebel cirenaico, quantunque ben rilevante fosse la distanza, oltre 1000
chilometri di deserto dalle oasi di Cufra.
Dal confine egiziano veniva ben presto a cessare il contrabbando, grazie
anche alla costruzione dell'immenso reticolato, che dal mare si protendeva
per oltre trecento chi-lometri nell'interno: opera veramente colossale,
compiuta in soli sei mesi, dall'aprile al settembre 1931. Sorvegliata da
pattuglie e da fortini opportunamente distanziati, tale linea di confine era
praticamente invarcabile, non solo alle provenienze dall'Egitto, ma anche a
quanti dal nostro territorio volevano passare di là.
La ribellione sedata definitivamente. — Sul Gebel — e in parte della
regione sirtica — continuavano intanto le nostre azioni di rastrellamento
contro gli ultimi nuclei di ribelli.
Completa tranquillità nei primi due mesi del 1931. Alla fine di febbraio, un
gruppo di ribelli tentava una razzia nei pressi di Apollonia, ma prontamente
raggiunti dalle truppe, essi dovevano abbandonare il bestiame razziato.
Veniva subito ordinata una battuta generale sul Gebel da parte di nostre
colonne, che il 30 marzo infliggevano una sanguinosa disfatta ai ribelli
presso l'Uadi Ramla.
Altra azione importante fu effettuata dal 2 al 5 maggio contro il dor di
Abid, altra contro il dor Braasa, presso l'Uadi Bu Taga. In quest'ultima
azione, mentre i ribelli cercavano scampo verso il sud, venivano caricati e
dispersi da un nostro squadrone e nel conflitto veniva catturato lo stesso
Ornar el Muchtar, l'anima della resistenza in Cirenaica. Pochi giorni dopo
veniva giustiziato a Soluch.
Grazie alla nostra vigilanza, anche il contrabbando attraverso il confine
egiziano a sud del reticolato veniva a cessare dopo l'occupazione della zona
dell'Uadi el Mra, cosicché ogni carovana che tentasse di raggiungere il
Gebel cadeva nelle nostre mani.
Dopo la cattura di Ornar el Muchtar, la ribellione si poteva ritenere
assolutamente cessata.
Tentativi disperati di sconfinamento attraverso il reticolato venivano
frustrati con gravi perdite da parte dei ribelli. Il 15 dicembre 1931,
veniva ucciso presso il confine Jusuf ben Rahil, successore di Ornar el
Muchtar, e le sottomissioni si moltiplicavano. Alla fine del 1931, la
ribellione era definitivamente spenta.
La parola di S. E. Lessona. - Così S. E. Lessona, Sottosegretario di
Stato per le Colonie, riassumeva, nella seduta della Camera del 7 maggio
1935, l'importanza delle operazioni militari del Fezzan e di Cufra:
Le operazioni militari del Fezzan e di Cufra furono la premessa
necessaria alla soluzione diplomatica. La conquista di Cufra, infatti, rese
possibile la definizione del nostro confine col Sudan anglo-egiziano nella
zona di Auenat. Questa remota regione in pieno deserto libico, a oltre 1.500
chilometri dalla costa, aveva assunto una particolare importanza per il
fatto stesso della nostra occupazione. Auenat avrebbe, infatti, dovuto
sostituire l'oasi che per vent'anni era stata punto di sosta e di appoggio
delle carovane dirette dall'Africa all'Egitto, poiché le sue tre, pur
modestissime, sorgenti d'acqua erano ormai il solo luogo dotato di risorse
fra i centri egiziani, il Sudan e l'Africa equatoriale. Ma essendo Auenat
collegata geograficamente con l'oasi di Cufra, è evidente l'importanza che
per noi essa rappresenta, e infatti fu subito disposto, dopo l'occupazione
di Cufra, che venissero irradiati presidi presso la sorgente principale di
Daua, presso Mathen Sarra, sulle carovaniere congiungenti l'oasi di Cufra
rispettivamente col Sudan e con lo Ennedi, l'Ua-dai ed il Borcu.
L'Inghilterra, d'altronde, vantava anch'essa interessi e diritti sui pozzi
di Auenat. I negoziati per la definizione del confine in questo tratto
desertico si svolsero con vero spirito di conciliazione e l'accordo,
concluso a Roma il 20 luglio 1934, ne è la prova più evidente.
La conquista del Fezzan determinò, invece, le condizioni necessarie per
accordarsi con la Francia circa il proseguimento della linea del confine
meridionale della Libia, che nell'accordo del 1919 era stato definito fino a
Tummo. Le trattative, com'è noto, si sono concluse il 7 gennaio scorso in un
sistema di accordi che ci riconoscono il possesso delle regioni
settentrionali del Tibesti con i centri di Auzu e Guezenti, sino a
raggiungere il confine italo-sudanese. Con questa soluzione la Libia viene a
costituire un territorio omogeneo.
Il territorio ceduto dalla Francia (circa 114 mila chilometri quadrati)
garantisce le vie di comunicazione della Libia con l'Africa equatoriale
francese.