I Carabinieri Reali in guerra

 

 

L'inizio della guerra

 

1. Premessa.

 

La via dell'inferno è lastricata di buone intenzioni: in un certo senso anche quella verso una guerra lo è. Da quando la svastica nazista, originariamente un simbolo solare di molte civiltà indoeuropee, aveva cominciato a,diffondere la sua luce oscura, tanti avevano ripetuto come non mai attraverso l'Europa democratica la parola "pace". Gli argomenti dei sostenitori della pace, contro la follia di una nuova guerra devastatrice, non erano solo quelli generici ai quali ricorrono da sempre tutti i pacifisti. Erano sostenuti dal vivido, recente orrore della Grande Guerra, quella che aveva per la prima volta industrializzato il macello bellico e cancellato l'idea della lotta come nobile, anche se sanguinoso, gioco intriso di regole cavalleresche. Romanzi come "Niente di nuovo sul Fronte Occidentale" del tedesco Erich Maria Remarque o "Il fuoco" del francese Henri Barbusse resero con realistica crudezza e disperata poesia la distruzione di una generazione tra il fango delle trincee e l'incubo dei gas asfissianti. Quello che i pacifisti non vollero vedere era che i loro valori e i loro tentativi di trovare una ragionevole risposta alle rivendicazioni tedesche contro il diktat di Versailles erano meno di carta straccia per un dittatore spregiudicato come Hitler. Chi gode e approfitta dell'impunità della violenza, non può capire altro argomento della forza usata con dura fermezza. Tutto il resto non è che un dannoso e penoso palliativo, come le vicende storiche hanno abbondantemente dimostrato.

 

2. Le prove generali. Dopo la Conferenza di Monaco dei 1938, HitIer invade la Cecoslovacchia, rendendo di fatto ineluttabile la Seconda guerra mondiale. Nel frattempo, l'Italia annette l'Albania dopo che il re Zogu è stato deposto.

 

Mentre Benito Mussolini sperpera soldi, uomini e materiali in Spagna, Adolfo Hitler si prepara ad attirare l'Italia nella sua orbita e a procedere alle sue conquiste territoriali, rifacendosi di alcuni scacchi temporanei. Nel 1936 convince l'Italia a creare l’Asse Roma-Berlino, vanificando rapidamente ogni traccia di politica italiana di mediazione e di equilibrio tra le grandi potenze europee. Un anno dopo, complici le spettacolari parate e manovre militari organizzate dai tedeschi per il duce, Roma aderisce al patto anti-Komintern che la vede unita insieme a Berlino e Tokio nella lotta globale al comunismo. A questo punto Mussolini il 13 marzo 1938 non può più rifiutare all'alleato germanico il tanto agognalo AnschIuss (annessione) dell'Austria. Tra due ali folte di folla plaudente e commossa, Hitler fa il suo ingresso trionfale a Vienna, che in quel momento non si sente affatto vittima del nazismo bensì partecipe dell'esaltante espansione del grande Reich tedesco. Seguendo la classica tecnica del carciofo, il capo nazista piazza un altro colpo nella vulnerabile Cecoslovacchia. Quello Stato che oggi vediamo pacificamente separato in due repubbliche, oltre ad essere percorso da analoghe tensioni tra ceki e slovacchi, aveva anche una forte minoranza tedesca nei Sudeti.

I tedeschi dei Sudeti erano già in uno stato di grande effervescenza non fosse altro che per il potente richiamo esercitato dalla grande madrepatria, un passo oltre la frontiera. La Francia era teoricamente impegnata dal trattato di Locarno i difendere la Cecoslovacchia, che era l'unica democrazia funzionante in tutta la Mitteleuropa, anche perché nei Sudeti si trovava l'importante risorsa strategica delle celebri acciaierie Skoda. In pratica, l'Europa ebbe modo di assistere a una resa vergognosa mediata da una teatrale conferenza a quattro (HitIer, Mussolini, Daladier e Chamberlain), convocata dal dittatore fascista a Monaco (settembre 1938). La Cecoslovacchia, come già prima l'Etiopia, viene letteralmente offerta in pasto. Il Signore della Guerra si era reso perfettamente conto della situazione e nel marzo 1939, dopo aver annesso i Sudeti, occupò il resto della Cecoslovacchia proclamando unilateralmente il protettorato di Boemia e Moravia. La Slovacchia sotto la guida di monsignor Tiso si proclamò indipendente ponendosi sotto la protezione tedesca. Fu il primo serio campanello d'allarme per i politici dell'appeasement, i quali si ripromettevano di puntare i piedi per il successivo drammatico appuntamento in Polonia. Mentre si consumava la tragedia nazionale ceka e slovacca, Mussolini (visibilmente irritato per non essere stato preventivamente informato della mossa dal sua alleato) decise di invadere l'Albania (7 aprile 1939). In realtà non valeva nemmeno la pena di spodestare il debole Re Zogu: sarebbe stato forse meno costoso continuare a mantenerlo nell'orbita italiana, anziché montare un'operazione militare. Ma la logica del fascismo voleva un facile trionfo.

 

Nel paese delle aquile.

 

I carabinieri erano entrati in terra di Albania già nel 1928 con un gruppo di istruttori di educazione fisica appartenente alla missione militare italiana, Questa missione aveva seguito le due precedenti missioni (una delle quali aveva fornito l'occasione per il bombardamento di Corfù) incaricate essenzialmente di delineare i confini greco-albanesi. Durante lo svolgimento di quelle missioni dal 1923 al 1926 i militari italiani avevano assistito alla rapida ascesa al potere di un giovane ed ambizioso feudatario della regione del Mali. Alimed Bej Zogolli, alla testa della sua fedele milizia di dibrani e di sudditi del Mati, era riuscito al termine di una serie di complicate lotte intestine a conquistare il potere a Tirana. Nel gennaio 1925 Zogolli si era fatto proclamare presidente e capo del governo, affrettandosi prima a sostituire il precedente esercito con una milizia a lui fidata e poi a creare la coscrizione obbligatoria. Insieme ai loro colleghi di altre armi, i carabinieri avevano tenuto corsi di istruzione post-militare, propedeutici al servizio di leva, e corsi di educazione post-militare per migliorare la qualità dei riservisti. La loro attività, coronata dal successo dell'introduzione della leva obbligatoria, si era conclusa nel 1933.

Nel 1939 i Carabinieri Reali sbarcarono nuovamente in Albania insieme con 16 sezioni e plotoni mobilitati al seguito della forza d'invasione. Il compito loro affidato era fondamentalmente quello di mantenere l'ordine tra la popolazione civile e svolgere le usuali funzioni di polizia militare, complicate dalla presenza di numerose spie straniere. Il 12 aprile 1939 un'assemblea costituente, sostenuta dal governo d Roma, dichiarò decaduto Zogu (che nel 1928 si era fatto proclamare Re d'Albania dal Parlamento) decretando l'unione personale di Italia e Albania nella persona di un luogotenente del Re. A partire da quella data fu avviata la costruzione di un apparato statale fedele al nuovo governo. Per rimettere ordine nella polizia locale il governo albanese affidò il comando generale della gendarmeria albanese al divisionario dei Carabinieri, generale Agostinucci (24 maggio). La gendarmeria era stata creata proprio vent'anni prima da ufficiali italiani ed Agostinucci era un buon conoscitore della situazione locale, in quanto era stato proprio lui il capo di quel famoso gruppo di istruttori di ginnastica. L'allora Comandante Generale dell'Arma, generale Riccardo Moizo, dispose lo scioglimento di nove sezioni e plotoni mobilitati per affiancarli nel servizio territoriale alla gendarmeria albanese. Nell'estate del 1939 si dette luogo alla fusione tra le forze armate italiane ed albanesi, nonché all'invio di altri effettivi dall'Italia per infittire il dispositivo di sicurezza. I compiti operativi erano tre: disarmare le popolazioni, arrestare sovversivi e resistenti, restaurare la pubblica sicurezza specialmente nelle zone montane. Missioni difficili, che furono compiute con l'ausilio di apposite compagnie miste mobili (due nel Mali e nello Scutarino) e di plotoni mobili (regioni del Dibran e del Kossovo). Queste unità, insieme al dispositivo territoriale, riuscirono, in circa un anno, a cogliere risultati sostanziali pacificando quelle zone turbolente. Una fatica di Sisifo presto vanificata da un'altra grande guerra.

 

Il Patto d'Acciaio.

 

Ancora inebriato dalla sua conquista albanese, Mussolini firma il 22 maggio 1939, un patto che si rivelerà una vera e propria cambiale in bianco. Sotto l'altisonante nome di Patto d'Acciaio, i tedeschi ottengono in pratica l'alleanza militare automatica di Roma quali che siano le cause del conflitto. L'astuto e cinico ministro degli Esteri del Reich germanico, Joachim veri Ribbentropp, al momento della firma si premura di rassicurare gli alleati che Berlino non sarà pronta alla guerra se non dopo tre anni. La verità è che lo stato maggiore della Wehrmacht ha già ricevuto l'ordine di preparare la campagna della Polonia. L'ambasciatore italiano in Germania, Attolico, tenta di mettere in guardia Mussolini ma non viene ascoltato . Il dittatore italiano e i suoi collaboratori si illudono che il trattato assicuri loro il diritto ad una preventiva consultazione con il grande alleato: Hitler non è disposto a consultarsi con nessuno. La trama diplomatica del Fuhrer si apre con la richiesta aggressiva del ritorno della città di Danzica alla Germania e la relativa creazione di un corridoio stradale tra la madre patria e la città. Inoltre Berlino invita Varsavia ad entrare nel patto anti-Komintern, anticamera per una definitiva satellizzazione. Questa volta Francia e Gran Bretagna offrono precise garanzie alla Polonia, che irrigidisce la sua posizione, e cercano l'appoggio diplomatico dell'URSS nella speranza di creare una tenaglia che intimidisca Hitler. Ma Stalin non è un alleato naturale delle democrazie occidentali e i polacchi, molto diffidenti nei confronti dei russi, negano ogni diritto di transito alle truppe sovietiche per la difesa del loro Paese. Come se non bastasse fra Ribbentropp e Molotov, il ministro degli Esteri sovietico, si intesse un proficuo dialogo diplomatico che sfocia in un patto di non-aggressione, che prelude di fatto all'ennesima spartizione della Polonia.

 

3. La guerra lampo.

 

Il 1° settembre 1939 le truppe tedesche varcano la frontiera con la Polonia. L'esercito polacco, forte di 800.000 uomini al comando del maresciallo Edward Smiglv-Rydz, vive in una specie di allucinazione collettiva. I polacchi hanno ancora reparti di cavalleria molto ben addestrata che ha compiuto grandi gesta nella guerra russo-polacca. "Vestiti di ferro, sotto la guida di Smigly-Rydz, marceremo su Berlino", cantano le truppe. L'illusione dura lo spazio di un mattino. La Luftwaffe scatena 1.600 apparecchi in una sistematica campagna di bombardamento su tutti gli obiettivi di un qualche interesse. Ponti, concentramenti di truppe, aeroporti, sedi di comando, officine vengono distrutti da continui attacchi accuratamente coordinati. Il servizio d'informazioni tedesco, che dispone di molti collaboratori in Polonia, viene tempestivamente a conoscenza di tutte le mosse e le dislocazioni importanti. In tre giorni la debole aeronautica polacca è completamente annientata. Mentre il rombo degli aerei perseguita dall'alto civili e militari, a terra si assiste fin dalle prime ore alla massiccia avanzata di centinaia di Panzer che allargano una gigantesca tenaglia da nord, ovest e sud. Sono 60 divisioni di cui nove corazzate, strutturate in due gruppi di armate agli ordini dei generali Fedor von Bock e Gerd von Rudstedt. Le armate polacche sono disposte a cordone lungo la frontiera, mentre i tedeschi sviluppano potenti cunei . che affondano senza sforzo nel debole dispositivo avversario.

Hitler, memore che la rovina del suo Paese nella passata guerra fu causata dalla lotta su due fronti, chiede ai suoi generali di sviluppare un nuovo tipo di tattica. Basta con le grandi battaglie d'attrito che consumano tempo, uomini e materiali in macine senza fondo. Occorre folgorare l'avversario in una girandola di colpi ben assestati da truppe sempre in movimento. Nel periodo tra le due guerre i migliori cervelli dello stato maggiore prussiano hanno studiato a fondo il problema, sfruttando le lezioni del passato. Da Moltke senior è stata ereditati l'attenta pianificazione e la fluida esecuzione delle fasi della mobilitazione e del concentramento, dal generale Hutier l'intuizione che i centri di resistenza devono essere aggirati per essere poi conquistati, dall'italiano Douhet l'importanza dell'aeronautica. Le prime esercitazioni vengono effettuate con finti carri armati, poi l’URSS mette a disposizione campi segreti per l'addestramento delle prime formazioni corazzate in cambio del know-how tedesco. La guerra di Spagna, come abbiamo visto, fornisce un tragico banco di prova, ma il debutto vero e proprio avviene in Polonia. Il mondo, grazie anche all'abbondante materiale fotografico e filmato fornito dalle efficienti unità di propaganda da combattimento della Germania, assiste impotente ad una guerra nuova fiammante: il Blitzkrieg (guerra lampo).

Così, in bianco e nero nei popolari cinegiornali e nelle salette dei circoli di governo, gli spettatori vedono le terrificanti picchiate degli aggressivi Junkers Ju-87 Stukas (abbreviazione per aereo d'attacco in picchiata) che colpiscono con tremenda precisione gli obiettivi e l'avanzata inarrestabile dei Panzer o gli sbarramenti perfettamente coordinati delle artiglierie, seguite dai grandi balzi delle fanterie nel caratteristico elmo d'acciaio. In 17 giorni la Polonia è schiantata, Varsavia è invasa, le armate polacche sono ridotte a branchi erranti di sbandati. Poco dopo calano le truppe sovietiche per reclamare la loro fetta di quello sventurato Paese. Come reagiscono la Francia e la Gran Bretagna? Dove sono le loro truppe mentre si compie lo scempio di Varsavia? L'insieme delle democrazie ad ovest del Reno commette un fatale e, sembra, ricorrente errore. Invece di lanciare vigorosamente le forze congiunte per stroncare l'aggressione, si lasciano avvolgere dalle divergenze d'interessi, dalle chiacchiere, da un'opinione pubblica naturalmente pavida e da miti sempre verdi e sempre nefasti. Nascono così le illusioni del blocco navale, dello strangolamento economico, della neutralità, dell'efficacia delle difese apprestate. Belgio ed Olanda pensano di salvarsi con la neutralità, invece di coordinare le difese con quelle franco-inglesi. L'Inghilterra spedisce la BEF (British Expeditionary Force), composta da 400.000 uomini, nell'area di Lilla e Arras, con il compito di attendere gli eventi.

I maggiori errori vengono commessi dalla Francia, che dopo aver pagato nella Grande Guerra un tributo atroce di uomini nel fango delle trincee, decide di puntare, per la difesa delle proprie frontiere su una immensa trincea attrezzatissima. Il ministro della Difesa André Maginot ha chiesto a suo tempo i fondi necessari per le fortificazioni. Cemento e acciaio sono stati profusi per creare una barriera inespugnabile, irta di sensori, cannoni e mitragliatrici. Chilometri di gallerie sotterranee permettono di spostare truppe e munizioni al coperto. Depositi protetti assicurano cibo e riposo. Non è stato possibile, per motivi economici, far arrivare la fortezza fino al mare: ci si affida, per il versante nord alle fortificazioni belghe e alle foreste delle Ardenne. Soltanto una voce si leva a raffreddare le certezze dei militari francesi: è quella di un giovane ed arrogante colonnello, Charles Da Gaulle, che ha il coraggio di scrivere che la vera corazza del futuro è quella semovente rappresentata dai carri armati,autentica cavalleria di sfondamento. Parole al vento, solo i tedeschi meditano su di esse. Gli altri fanno affidamento sullo scudo della Maginot, impresa di un politico previdente, ma non preveggente. La marcia tedesca prima sommergerà Danimarca e Norvegia con una serie di audacissimi sbarchi navali ed aerei. Poi inonderà la Francia e raggiungerà Parigi, aggirando la fortezza, inutile come una nave in secca.

 

4. L'Italia nel conflitto.

 

Mussolini è al corrente della scarsa preparazione bellica italiana. Ha ricevuto ripetuti avvertimenti in proposito. Lui stesso ha una volta ammesso che l'Italia era meglio preparata alla guerra nel 1915 che nel 1939 e ha potuto verificare di persona che le divisioni pronte al conflitto non hanno la consistenza necessaria. Non sono motti i rapporti delle gerarchie militari che denunciano le carenze del nostro armamento: molti generali preferiscono tacere, convinti che questo sia il modo migliore per non compromettere la propria carriera. E tuttavia alcuni alti ufficiali fanno arrivare al duce le proprie osservazioni e riserve. Il colonnello Canevari, un mese prima dello scoppio della guerra, avverte che la motorizzazione del regio esercito è precaria e che le divisioni sono corazzate solo di nome. Il generale Graziani mette in rilievo lo scarso coordinamento fra aviazione e marina, definendo antiquata la prima e del tutto inadeguata la seconda, che non ha a disposizione portaerei. Per circa un anno Mussolini frena le proprie velleità belliche a causa della troppo evidente impreparazione militare. Ma le vittoriose campagne germaniche in Belgio e in Francia lo convincono ad affrettare i tempi, nell'illusione che un sacrificio di qualche migliaio di morti risulterà sufficiente per conquistare il diritto di sedersi al tavolo dei vincitori. Senza nemmeno consultare il gran consiglio del fascismo, il 10 giugno 1940 il duce proclama dal balcone di palazzo Venezia l'entrata in guerra.

Annota amaramente nel diario l'esule antifascista Pietro Nenni: "E’ una guerra senza ragione, senza scusa, anche senza onore. Senza ragione, perché non è in giuoco alcun reale interesse italiano. Senza scusa, perché una vittoria tedesca in questa guerra importerebbe a noi, come al resto dell'Europa, l'intollerabile e brutale egemonia di Hitler. Infine senza onore, perché Mussolini attacca una Francia già invasa e agonizzante, facendo assumere all'Italia la parte dello sciacallo». Anche l'Arma partecipa alla cosiddetta battaglia delle Alpi, una modesta penetrazione nella Savoia che non si risolve in un disastro solo perché l'armistizio con la Francia entra in vigore il 25 giugno. Nell'imminenza del conflitto il regime aveva emanato per i Carabinieri Reali un nuovo regolamento, denominato Servizio in Guerra, che concentrava la sua attenzione sulle misure di polizia per la prevenzione e l'eliminazione di danni arrecati dalla diffusione di notizie militari o da infrazioni alle leggi vigenti. Particolare cura, sulla scorta delle dure esperienze antiguerriglia compiute in Libia ed Abissinia, veniva rivolta al controllo della popolazione civile con la missione di «far osservare alle popolazioni civili delle operazioni le leggi, i regolamenti, le ordinanze e i bandi dell'autorità militare; prevenire e reprimere i reati; custodire gli arrestati".

 

Grecia amara.

 

Per lo sforzo bellico l'Arma mette a disposizione un notevole numero di unità: 36 battaglioni; un battaglione paracadutisti; uno squadrone a cavallo; un gruppo autonomo; 19 compagnie autonome; un nucleo per la base tradotte; 410 sezioni (miste, alpine, motorizzate, celeri, per l'aeronautica); nuclei per gli uffici postali, nonché comandi Carabinieri presso tutte le grandi unità dal gruppo d'armate alla brigata e presso le basi aeree e navali. La campagna di Grecia sarà il vero battesimo del fuoco per i Carabinieri in guerra. E’ un'avventura decisa d'impulso da Mussolini, irritato per l'inattesa invasione tedesca della Romania; pianificata in modo molto approssimativo (anche perché il duce ha ignorato ostinatamente le cifre della forza greca fornitegli dai servizi) ed eseguita ancor peggio. Le dieci divisioni comandate dal generale Visconti-Prasca urtano ben presto contro le munite difese apprestate dal generale Alexandros Papagos lungo l'asperrima catena del Pindo. E’ una catastrofe perché dopo appena un mese l'offensiva italiana viene frustrata da duri contrattacchi di soldati greci, maestri nell'uso del mortaio e nell'assalto di fanteria, fierissimi nella difesa della loro antica patria e disgustati per l'attacco da parte di un popolo considerato confratello.

Tra il novembre e il dicembre 1940 i greci attaccano con successo la posizione chiave di Koritza e ributtano indietro gli italiani in Albania con gravi perdite di uomini e materiali. L'inverno 1940-41 vede una difesa della linea Valona-Tepelino-Lago di Ocrida. La campagna di Grecia viene generalmente ricordata per le imprese degli alpini, in particolare quelli della divisione Julia, ma accanto a loro vi sono anche i carabinieri del terzo battaglione. I seicento uomini del battaglione vengono accolti a Durazzo e a Tirana da un violento bombardamento della britannica RAF (Royal Air Force). Il 19 novembre sono Schierati cori il IX reggimento alpini sulla linea a cavallo della strada Premeti-Perati. Quando il nemico attacca la critica quota 665, i carabinieri comandati dal tenente colonnello Giuseppe Contadini tengono duro e non accennano alla ritirata nemmeno quando la pressione avversaria diventa quasi insostenibile. I militi fanno piovere dozzine di micidiali bombe a mano e solo il cedimento di un altro settore li obbliga ad arretrare. Una loro compagnia ha il difficile incarico di coprire la ritirata e guaderà il fiume Sarandaporos dopo che i genieri italiani hanno fatto saltare il ponte di Perati.

 

Le quote di Klisura.

 

Nel settore di Premeti, presso il comando della Julia, il battaglione agisce come forza di pronto intervento nei settori più minacciati. Il 16 dicembre presso il delicato settore di Klisura la seconda compagnia difende con le unghie e con i denti la quota 1117 di Shesh Mal. Costretti nuovamente alla ritirata, i carabinieri cercano di fermare i greci lungo la mulattiera per Klisura. Accerchiati, lanciano un violento contrattacco. E’ la vittoria, ma pagata con la morte del loro comandante tenente Ronchey (medaglia d'oro) e con la perdita di un quinto degli effettivi. Per tutto dicembre e gennaio l'esistenza del terzo battaglione si sgrana in un doloroso rosario di sofferte resistenze e tremendi assalti in una zona i cui nomi resteranno impressi nelle menti dei superstiti: Chiarista, Fratint, quota 287 a Klisura. Le loro gesta varranno una medaglia di bronzo alla bandiera dell'Arma. In tutto il settore greco-albanese sono presenti 106 ufficiali dell'Arma, 280 sottufficiali e 5.800 militari a piedi, più 97 uomini dello squadrone a cavallo. Oltre al III battaglione mobilitato ve ne sono altri nove, tutti impiegati a fondo sia nei combattimenti intorno a Monastir, sia nella sicurezza contro il numero crescente di bande partigiane nella zona del Kossovo e di Scutari, sia nella difesa del passo Llogorà o di altri punti critici del fronte greco, sia nel servizio di polizia. La disgraziata campagna avrà un sussulto in marzo con un tentativo di offensiva italiana per spezzare le reni alla Grecia. Il sangue versato è molto, il valore indiscutibile, ma i risultati militari sono scarsi.

La soluzione arriva attraverso le operazioni del potente alleato. Hitler, visto sfumare il piano di invadere la Gran Bretagna, è pronto a sgombrare la scacchiera per aprire la mortale partita con il regime di Stalin. L'Ungheria e la Romania sono già entrate nella sua orbita, ma la Jugoslavia potrebbe rappresentare una minaccia al suo fianco strategico. Prima di impiegare le sue preziose divisioni, il Fuhrer cerca di ottenere il suo scopo con i mezzi della diplomazia. I suoi proconsoli attuano un piano di forti pressioni sul principe reggente Paolo di Jugoslavia per convincerlo ad entrare nell'Asse. L'obiettivo sembra raggiunto il 25 marzo 1941, quando Belgrado annuncia di essere entrata nel patto. Due giorni dopo però un colpo di Stato depone il reggente, confidando nell'aiuto degli inglesi sbarcati in Grecia. Invano: Belgrado verrà spazzata in nove giorni. La possente macchina bellica della Wehrmacht è entrata in azione dopo appena dieci giorni di preparativi spinta da un Hitler irritato per le scelte operate da Mussolini, che hanno avuto l'unico effetto di allargare il fronte del conflitto. Ma la partita in Grecia viene comunque risolta dai tedeschi in tempi straordinariamente brevi: elementi dell'armata comandata dal maresciallo List sfondano la linea fortificata Metaxas, volgendo in rotta i nemici e conquistando la Grecia in meno di un mese.

 

5. In Africa il fuoco nel deserto.

 

I racconti della guerra del deserto evocano automaticamente tre nomi carichi di emozioni e di memorie: Rommel, Afrika Korps e Folgore. Anche dalla parte dei vincitori la campagna d'Africa richiama alla memoria nomi carichi di gloria: Montgomery, Desert Rats, France Libre. Ma, una volta tanto, i nomi che hanno conservato la maggiore suggestione sono quelli degli sconfitti, anche se responsabili di una guerra iniqua. La campagna africana non comincia bene per gli italiani, al comando del generale Graziani. Forti di cinque divisioni potrebbero cacciare le deboli forze inglesi dall'Egitto, ma l'inettitudine, la cautela e le difficoltà logistiche li bloccano a Sidi Barrani. Bastano due divisioni rinforzate e un po' di fortuna al generale Wavell per espellere alla fine del 1940 le forze fasciste dall'Egitto. Nel febbraio del 1941 la Cirenaica viene invasa, Tobruk capitola e a Beda Fomm si conclude la distruzione di un totale di nove divisioni italiane. Il morale è a terra ma, quando arriva Erwin Rommel con la XXI divisione Panzer, la situazione si modifica profondamente. Rommel, un prussiano di antenati polacchi, aveva già combattuto nella Prima guerra mondiale e proprio a Caporetto aveva imparato una grande lezione: la massa conta meno della concentrazione di forze nel punto giusto e della manovra condotta con audacia.

Il 24 marzo Rommel decide di riprendere l'iniziativa agli inglesi respingendo prima la loro forza di copertura ad El Agheila, poi effettuando una decisa puntata sulla fortezza di Tobruk. Wavell è colto di sorpresa e la sua II divisione corazzata viene sfasciata nel tentativo di intercettare la manovra tedesca. In Africa compaiono, al fianco delle "scatole da sardine" italiane, i moderni Panzer III e il formidabile cannone da 88 millimetri. Inizialmente concepito come pezzo antiaereo, le sue doti di micidiale ammazzacarri vengono scoperte per caso durante la campagna di Francia. E’ Rommel che ne inventa un impiego più aggressivo: li utilizza non solo come mezzo di sbarramento difensivo, ma anche come moltiplicatore di fuoco, lanciato insieme alle corripagnie carri. Un apparente buon senso consiglierebbe alle forze del Commonwealth britannico una ordinata ritirata, ma a Wavell non sfugge l'importanza di tenere Tobruk, chiave del vitale sistema di comunicazioni lungo la costa. Per questo decide di mettere dentro la fortezza l'intera VII divisione australiana in modo da costituire una spina nel fianco dell'Asse. Fallito un frettoloso assalto. Rommel cinge d'assedio Tobruk e avanza sui passi di Sollum e Halfaya. Wavell, già fortemente indebolito dall'inutile spedizione britannica in Grecia, è costretto da pressioni politiche a Londra a far qualcosa per spezzare l'assedio di Tobruk. L'offensiva ha scarse probabilità di successo, che vengono immediatamente cancellate dall'abilità di Rommel; Wavell viene sostituito dal generale Sir Claude Auchinleck. Mentre le armate dei due avversari si rafforzano e si dotano di nuovi mezzi, arriva anche una piccola, ma scelta unità dei Carabinieri.

 

Parà con gli alamari.

 

Il battaglione Carabinieri paracadutisti nasce nella stessa culla delle aviotruppe italiane, la scuola paracadutisti di Tarquinia. Sulle stesse torri di lancio dove si addestrano i ragazzi della divisione Folgore, dal 15 luglio 1940 si svolge anche l'istruzione dei carabinieri. Sono identici i paracadute impiegati (prima il Salvator D, poi il più sofisticato IF 41/SP, la cui sigla vuol dire "Imbracatura Fanteria mod. 41/ Scuola Paracadutisti"); sono identici i velivoli impiegati per i lanci, tra cui i mediocri Caproni Ca. 133. L'addestramento e la selezione sono durissimi, qualcuno non supera gli esami, qualcuno rimane vittima di incidenti mortali. Alla metà di luglio arriva improvviso l'ordine di partenza per l'Africa "a disposizione di quel Comando Superiore FFAA". Rinunciando a un piano di invasione dell'isola di Malta, i paracadutisti italiani vengono impiegati nella fornace libica come semplice fanteria scelta. Tra luglio ed ottobre le forze dei due contendenti in Libia si riorganizzano in vista del prossimo cielo di operazioni. L’VIII armata britannica viene portata alla forza di sette divisioni e di 700 tank. La Desert Air Force raggiunge i 1.000 aerei. Nelle forze dell'Asse l'Afrika Korps si espande con la XV divisione Panzer e le più ridotte 90° e 164ª divisioni leggere, alle quali si aggiunge un corpo di sei divisioni italiane. Sono schierati per l'offensiva 260 Panzer e 154 carri italiani, più 120 aerei germanici e 200 italiani. La sproporzione di forze neri è trascurabile, anche se Rommel, soprannominato “la volpe del deserto", non mostra di preoccuparsene eccessivamente.

La mossa di apertura tra le desolate pietraie e la stretta fascia verde costiera viene compiuta da Auchinleck con un attacco di sorpresa a Marsa Matruh che mira a insaccare le forze dell'Asse a Sollum e Bardia. Rommel riesce a battere gli inglesi in una confusa battaglia a Sidi-Rezegh e contemporaneamente a respingere una sortita da Tobruk. Poi sferra un improvviso colpo nella profondità delle retrovie nemiche. Soltanto le capacità di Auchinleck impediscono che il morale degli Alleati venga distrutto dalle abili mosse di Rommel: il comandante britannico riesce anzi a intrappolare parte dell'Atrika Korps. I tedeschi rompono l'accerchiamento e attuano una rapida ritirata in dicembre, sotto la continua pressione dei britannici che arriveranno fino a Bardia. E’ in questo momento che il 1° battaglione Carabinieri paracadutisti, al comando del maggiore Edoardo Alessi, riceve (il 14 dicembre) l'ordine di attestarsi sul bivio di Eluet el Asel, a sud di Berta, con il secco ordine di resistere ad oltranza. Sembra una richiesta di suicidio per fonogramma. Sono solo 400 uomini, rinforzati da 6 cannoni controcarro da 47/32 millimetri dell'8° reggimento bersaglieri, dotati di 400 bombe controcarro Passaglia e di una settantina tra fucili mitragliatori e mitragliatrici. Come resisteranno all'VIII armata avanzante? Dovranno arrangiarsi perché i loro commilitoni in ritirata sulla litoranea hanno bisogno di tempo per sfuggire alla cattura. La sera del 18 dicembre una pattuglia riferisce di mezzi in avvicinamento. Alle 5,55 del 19 i cannoni controcarro inquadrano il facile bersaglio di cinque camionette. E’ l'inizio di uno scontro violentissimo, che si apre con il tambureggiante fuoco di preparazione dell'artiglieria inglese.

Alle 15,15 un battaglione nemico tenta di colpire in una zona pianeggiante. Il maggiore Alessi ha previsto la mossa e piazzato due dei suoi cannoni, ma la situazione diventa sempre più critica. Nonostante l'intensa fucileria, i fanti nemici, appoggiati da tank ed autoblindo, si avvicinano pericolosamente. Resistere sul posto sarebbe l'annientamento, ritirarsi non è consentito. I Carabinieri parà si lanciano dunque in un terribile contrattacco armati delle loro Passaglia. Ci vuole arte e fegato per usarle. Bisogna correre verso il tank sferragliante con le mitragliatrici che sparano dovunque, evitare di finire sotto i cingoli, lanciare la bomba con precisione sul vano motore e buttarsi a terra. Quando l'ordigno penetra dentro il carro, succede l'ira di Dio: le fiamme divampano, il liquido idraulico schizza rovente per ogni dove e le munizioni possono saltare. E’ una giostra infernale di attacchi e contrattacchi. A sera i britannici si ritirano. Al diavolo questi italiani testardi, domani è un altro giorno e saranno schiacciati con comodo. Per i carabinieri non c'è il domani. Alle 18,40 arriva finalmente l'ordine di ripiegare, restano tre plotoni di copertura e l'appuntamento per tutti è fissato ad Agedabia. Lungo la via Balbia il battaglione incontra un'altra colonna, ma è ferma.

 

La notte degli assalti.

 

Gli inglesi hanno bloccato in più punti la Balbia e questo al bivio di Lamluda è uno dei loro posti di blocco. La zona è battuta da ogni tipo di arma: si sente lo gnaulio delle pallottole, il fragore delle bombe da mortaio, la botta secca dei pezzi da 5 libbre. I parà scivolano silenziosamente ai due lati dello sbarramento e si avventano sul nemico all'improvviso, preceduti dallo scoppio delle loro bombe Passaglia. I nemici si danno alla fuga. Via libera, ma solo per qualche chilometro. Un altro sbarramento, più solido del primo, ferma di nuovo la difficile marcia. Gli inglesi fanno uso dei razzi verdognoli per chiamare a raccolta gli uomini per fronteggiare la colonna di italiani, che si aprono la strada lanciando le loro Passaglia. Alcuni mezzi prendono fuoco, si sentono le urla dei feriti. Dopo tre ore di assalti l'ostacolo è rimosso. Forse gli uomini potranno concedersi qualche ora di riposo. Non è così: una nutrita scarica di armi automatiche avverte i carabinieri che, poco più in là ci sono altri inglesi.

Alessi raduna di nuovo i suoi uomini, anche se è ormai difficile far eseguire gli ordini e mantenere l'ordine dei reparti. Dopo ore di battaglia, ciascuno si muove per proprio conto. Ma anche il nuovo blocco viene superato. Non è finita: una mina spezza in due la colonna. Chi resta indietro sarà catturato all'alba dopo una disperata resistenza, ma il battaglione ce la fa ed arriva quasi senza problemi ad Agedabia. Chi ha avuto qualche seccatura in più sono i tre plotoni di retroguardia ad Eluet el Asel. I britannici hanno cercato in tutti i modi di non farli sganciare. Solo con l'arrivo della notte i superstiti possono sgusciare inosservati tra le maglie nemiche e raggiungere le proprie linee dopo molte avventure.

 

L'inizio della fine.

 

Per il battaglione, che conta solo 91 superstiti in grado di combattere, è la fine come unità operativa. Il 13 maggio 1942 arrivano al Comando Generale le congratulazioni del Capo di Stato Maggiore dell'Esercito per il primo battaglione di paracadutisti italiani per fondazione ed impiego bellico che si è cosi valorosamente distinto. Un riconoscimento ancor più esaltante, che testimonia il grande coraggio dimostrato, viene da parte del nemico. Radio Londra ammette nei suoi notiziari che "i paracadutisti italiani si sono battuti come leoni: fino ad ora. in Africa, i reparti britannici non avevano mai incontrato una resistenza cosi accanita". Presto altri colleghi parà meriteranno la gloria per una resistenza altrettanto eroica. Tutto il 1942 vede la vittoriosa avanzata di Rommel fino alle porte dell'Egitto. Non lo ferma la superiorità dei mezzi nemici, ma lo schieramento di fortini sulla linea di Ain Gazala, non la resistenza valorosa delle truppe francesi a Bir Hacheim. non le potenti fortificazioni di Tobruk.

E’ solo per esaurimento fisico e logistico che le sue armate si fermano nella strozzatura creata nel deserto dalla depressione di Qattara. Rommel prova ancora un'audace azione tra agosto e settembre con la battaglia di Alam Halfa. Lo fronteggia un nuovo generale duro. prudente e metodico, Alan Montgomery, che resiste senza cedere e lo costringe alla difensiva. Da allora si assiste all'impressionante crescita delle forze dell'VIII armata, alla quale gli italo-tedeschi possono solo contrapporre ingegnose difese e campi minati, che vengono soprannominati "giardini del diavolo". Quando Montgomery é pronto ad El Alamein, le sue fanterie dovranno sudare parecchio per penetrare le difese, anche se alla fine lo sfondamento sarà inesorabile. Toccherà all’orgogliosa divisione Folgore raccogliere l'eredità dei Carabinieri paracadutisti e scrivere un'altra pagina di straordinario valore. I carabinieri continuano a combattere come sempre su questo ed altri fronti. Li vedremo all'opera nella lontana Africa Orientale Italiana e nelle distese della Russia, ma nulla potrà allontanare la sensazione dell'inizio della fine.

 

 

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FONTE

Il sito ufficiale dell'Arma dei Carabinieri www.carabinieri.it