L'utopia societaria

 

 

 

 

 

 

La dichiarazione di "aggressore"

 

Nel primo fascicolo di queste «Cronache» furono già illustrate e misure militari di carattere precauzionale che l'Italia era stata costretta a prendere nella primavera e nell'estate del 1935 per la tutela delle sue colonie nell'A. O., minacciate dalla aggressività etiopica. Queste misure si manifestavano tanto più necessarie in quanto a partire dai primi mesi del 1935, subito dopo l'incidente li Ual-Ual, l'Etiopia, che negli anni precedenti si era già largamente rifornita di armi, si era data affannosamente ad acquistare materiale bellico modernissimo in tutti i mercati del mondo, mentre, per coprire tale sua preparazione militare, inscenava una vasta speculazione internazionale moltiplicando le sue note a Ginevra per accusare l'Italia di intenzioni ostili nei suoi confronti.
Ad un primo appello fatto nel marzo '35, il Consiglio della Società delle Nazioni aveva ritenuto che non vi fosse per la Lega motivo di intervenire, essendo in corso negoziati diretti fra l'Italia : l'Etiopia per il regolamento dell'incidente di Ual-Ual. Un successivo appello del 6 aprile, non aveva sorte migliore in quanto iella seduta del 25 maggio il Consiglio della Lega constatava che era in corso fra Italia e Etiopia la procedura arbitrale prevista dal franato del 1928, Art. 5.
Le continue, insistenti richieste etiopiche per portare sul terreno internazionale i suoi rapporti con l'Italia venivano finalmente prese in esame dalla Lega in una sessione straordinaria del Consiglio dei primi d'agosto 1935.

Il Governo italiano osservò allora che, essendo ancora pendente la procedura d'arbitrato per l'aggressione di Ual-Ual - da cui legittimamente si attendeva di veder riaffermata la responsabilità etiopica - il Consiglio doveva attenderne i risultati. Tale osservazione venne considerata giusta dal Consiglio, che decideva di riunirsi il 4 settembre. Intanto i Governi francese e inglese, rendendosi conto della gravita del problema dei rapporti italo-etiopici, convenivano nella opportunità di uno scambio di idee con l'Italia. E' noto come tali conversazioni, condotte a Parigi nell'agosto, si risolvessero in un insuccesso, per lo spirito di incomprensione col quale Francia e Inghilterra ebbero a considerare le nostre esigenze, basate a) sulla necessità assoluta della sicurezza delle nostre colonie, b) sui bisogni di espansione italiana - riconosciuti nelle pubbliche dichiarazioni del ministro britannico Hoare, c) sulla preminenza dei diritti e degli interessi italiani in Etiopia, fondati anche sugli accordi italo-britannici del 1891, 1894 e 1925 e sul Trattato anglo-franco-italiano del 1906.
Ai primi di settembre venivano ultimati i lavori della Commissione arbitrale per Ual-Ual, la cui sentenza, ove si tenga conto dell'atmosfera politica internazionale in cui venne emessa, è un riconoscimento della colpevolezza dell'Etiopia nell'aggressione contro il presidio italiano di Ual-Ual.
Terminata la fase arbitrale, il 4 settembre il Governo italiano presentava alla S. d. N. un documentato memoriale sulla questione etiopica, in cui, fatta la storia delle innumerevoli aggressioni perpetrate da 40 anni ai nostri danni (oltre cento nei soli ultimi 10 anni), descritto lo stato di barbarie in cui si trovava l'Abissinia, ed esaminate tutte le violazioni di accordi e impegni internazionali, nonché l'assenza di tutte le condizioni necessarie perché uno Stato sia degno di far parte della S. d. N., l'Italia attirava l'attenzione del mondo su quell'impero schiavista, refrattario ad ogni civile e ordinato progresso, costante minaccia per la pace e la sicurezza dei suoi vicini.
Di fronte a tale atto di accusa, il Consiglio della Lega, nella seduta del 6 settèmbre, decideva di nominare un comitato di 5 membri (che risultò composto dai rappresentanti dell'Inghilterra, Francia. Spaglia, Polonia e Turchia), con l'incarico di esaminare il memoriale italiano e di fare delle proposte per cercare una soluzione pacifica del conflitto. Il Comitato redigeva un progetto di assistenza collettiva all'Etiopia, che consegnava il 18 settembre ai rappresentanti dell'Etiopia e dell'Italia, invitandoli a far conoscere le loro osservazioni.
E' noto come il Governo italiano, pur apprezzando lo sforzo fatto dai Cinque per venire incontro alle nostre richieste, abbia dovuto respingerle in quanto non offrivano una base di discussione soddisfacente. Tali proposte infatti consistevano soltanto in un piano di riforme relativo alla polizia, alla messa in valore economica del paese, alle finanze, alla giustizia e ad altri servizi pubblici, che avrebbero dovuto svolgersi sotto il controllo della S. d. N. e con la partecipazione di Consiglieri europei che avrebbero dovuto venire singolarmente accettati dal Governo abissino. Si trattava in sostanza di una specie di « mandato collettivo ». mentre l'Italia giustamente doveva attendersi che. una volta riconosciuta la necessità di « assistere » l'Abissinia, tale mandato venisse ad essa conferito, come si era affidato alla Francia e alla Gran Bretagna il mandato di assistere altri paesi arretrati in Africa e in Asia.
E' vero che i rappresentanti dell'Inghilterra e Francia avevano fatto conoscere al Comitato dei Cinque che per contribuire al regolamento pacifico del conflitto avrebbero acconsentito a favorire degli aggiustamenti territoriali fra Italia ed Etiopia ed a riconoscere all'Italia un interesse speciale nello sviluppo economico di quel paese. Ma questi aggiustamenti territoriali, mentre avrebbero arricchito il nostro paese soltanto di « nuovi deserti » (l'Ogaden e parte del bassopiano Dancalo), si ripromettevano di indennizzare l'Etiopia con uno sbocco al mare (Zeila, che sarebbe stata ceduta all'Etiopia dalla Gran Bretagna), ciò che le avrebbe consentito di armarsi ancor più rapidamente a tutto nostro pericolo.
Frattanto l'Etiopia dichiarava, il 28 settembre, la mobilitazione generale e cinque giorni dopo, il 2 ottobre, per prevenire l'imminente minaccia alle sue Colonie, l'Italia dava ordini alle proprie forze armate di assicurarsi in territorio etiopico quelle migliori posizioni che fosse necessario raggiungere per misure di sicurezza.
II 3 ottobre il Governo italiano comunicava alla S. d. N. di aver preso tali necessarie misure di difesa e il 5 ottobre il Consiglio della S. d. N. si riuniva d'urgenza per esaminare la nuova situazione.
In tale riunione il Delegato etiopico chiese che fosse constatato che l'Italia aveva ricorso alla guerra contrariamente agli articoli 12, 13 e 15 del Patto e domandò l'applicazione immediata dell'ari. 16.
Riassumiamo le disposizioni di tali articoli:
Art. 12 e 13.- I membri della Lega convengono di regolare le controversie che sorgessero tra di loro, o per via diplomatica, o con procedura di arbitrato o regolamento giudiziario, o attraverso un ricorso al Consiglio della S. d. N., e di non ricorrere alla guerra prima che siano trascorsi tre mesi dalla decisione arbitrale o dal rapporto del Consiglio.
Art. 15. - Una disputa fra due Stati membri della S. d. N. che non ha potuto essere risolta con negoziati diretti o con un procedimento arbitrale e che è suscettibile di portare a una rottura, deve formare oggetto di esame da parte del Consiglio. Questo dovrà anzitutto sforzarsi di assicurare il pacifico componimento del conflitto e in caso di insuccesso pubblicare un rapporto contenente le raccomandazioni che ritiene di dover fare sulle soluzioni più adatte.
L'art. 15 dispone inoltre che il Consiglio può portare la disputa di fronte all'Assemblea, la quale può adottare a maggioranza il rapporto del Consiglio.
Sulla base di queste disposizioni si è inscenato, dal 5 al 9 ottobre, il processo più inaudito e illegale per tentare di arrestare l'Italia nelle operazioni che essa era stata costretta a iniziare, dopo la mobilitazione generale etiopica, per la sicurezza dei suoi possedimenti in Africa. Le fasi del procedimento «per direttissima» ebbero inizio il giorno 5 con la decisione del Consiglio di nominare un Comitato di sei membri per studiare la situazione e presentare entro due giorni un esposto dei fatti.
Per considerare dunque il complesso dei rapporti italo-etiopici, il Comitato ha impiegato meno di due giorni. Tale precipitazione non può essere stato frutto che di preordinata intenzione, cioè di partito preso.
Vale la pena di ricordare che nel caso analogo del conflitto cino-giapponese, la Cina ricorse alla S. d. N. il 29 gennaio 1932 invocando l'art. 15, e il 7 dicembre di quell'anno il delegato britannico proponeva ancora al Consiglio moderazione nel giudicare, considerazione per il sentimento patrio delle parti in conflitto, e concludeva saggiamente che «nessuno può conciliare senza essere conciliante». Quando queste raccomandazioni venivano esposte, il conflitto cino-giapponese era in corso da 15 mesi, l'occupazione del Manciu-Kuo era stata già effettuata e così pure la costituzione di questo territorio in Stato indipendente dalla Cina e protetto dal Giappone.
Ma nel caso del conflitto italo-etiopico il Consiglio della Lega, quando si riunì per esaminare il rapporto del Comitato dei Sei che concludeva dichiarando l'Italia stato aggressore, non volle rieppure accordare il rinvio di un sol giorno, chiesto dal rappresentante italiano per presentare le osservazioni del R. Governo.
Vale la pena di ricordare che nel precedente analogo già accennato del conflitto cino-giapponese, il Consiglio, dopo aver nominato una commissione per condurre un'inchiesta sul posto sulle circostanze di fatto del conflitto, e dopo aver esaminato il rapporto Lytton, non era pervenuto ad alcuna conclusione.
Nella seduta del 7 ottobre il Consiglio della S. d. N., costituitesi in Comitato dei Tredici (cioè composto di tutti i suoi membri meno il. rappresentante dell'Italia, parte in causa), redigeva e presentava in fretta una relazione «per far conoscere le circostanze del conflitto» all'Assemblea.
Dopo aver riassunto gli avvenimenti degli ultimi anni ed accennato brevemente alle accuse contenute nel memorandum italiano, accuse che non furono peraltro nemmeno esaminate, il rapporto del Comitato dei Tredici concludeva col raccomandare alle Parti che fosse posto fine senza indugio a qualsiasi violazione del Patto.
Il 9 ottobre si riuniva l'Assemblea, a cui era stato trasmesso il rapporto del Comitato dei Sei e la relazione del Comitato dei Tredici. Anche all'Assemblea le tappe furono bruciate.
Il Presidente dell'Assemblea propose di decidere seduta stante sulla questione dei rapporti italo-etiopici. In una materia così delicata e decisiva, venne stabilito che, anziché far votare individualmente i membri dell'Assemblea, il loro assenso alle conclusioni del rapporto sarebbe stato considerato acquisito col semplice silenzio. Questa procedura intimidatoria, fatta appunto per evitare che in séno alla Assemblea si levassero delle voci anche soltanto in parte dissenzienti se non altro a quello strano modo di procedere, non impedì tuttavia che i rappresentanti di due Stati piccoli di territorio ma grandi di coraggio. l'Austria e l'Ungheria, si alzassero per dichiarare con parola commossa e ferma che non intendevano associarsi alla condanna dell'Italia. Nessun altro prese la parola e il silenzio quasi generale dei membri dell'Assemblèa significava che l'Italia veniva considerata « aggressore » dell'Etiopia.
Il processo conclusosi il 9 ottobre mostra chiaramente, attraverso questo brevissimo esame, di avere avuto come base la precipitazione, l'ingiustizia, la illegalità e il partito preso.
C'è da domandarsi perché, dato anche e non concesso che vi fosse violazione del Patto - cosa che tutte le circostanze del conflitto debbono far escludere - il caso dell'Italia abbia suscitato un così violento scoppio di fede nel Patto, quale non si era visto ancora nella storia ginevrina e specialmente nei casi del conflitto cino-giapponese e del Chaco, e l'adozione di un procedimento sommario che giunse sino a negare il diritto di difesa all'Italia, ciò che basterebbe a invalidare tutto il giudizio.
Tutti ricordano le abusate frasi della stampa al servizio dell'Inghilterra e della socialdemocrazia, sulla necessità di condurre a termine questo che fu classificato l'esperimento della vitalità della Lega in nome dell'ideale della sicurezza collettiva. Si è inteso cioè provare che se questa nuova procedura ginevrina avesse avuto successo, essa avrebbe servito come precedente per qualsiasi altro conflitto che avesse minacciato interessi di ogni Paese.
Ciascuno pensava a un proprio falso scopo nel colpire l'Italia, senza rendersi conto che nella storia dei popoli nessun caso viene risolto come quello precedente e che la sicurezza collettiva non era nel caso etiopico che un paravento per nascondere inconfessabili egoistici interessi di qualche potenza egemonica: prova ne sia l'invio intimidatorio della «Home Fleet» in Mediterraneo, nel settembre, quando ancora le nostre truppe non avevano passato il Mareb, e a Ginevra si discuteva sulle proposte conciliative del Comitato dei Cinque.
Non doveva tardare del resto il momento in cui il mito del «precedente» sarebbe stato smentito nel modo più clamoroso, come il caso della rimilitarizzazione della Renania doveva chiaramente far constatare a tutti gli illusi.
Il 10 ottobre, all'indomani della conclusione del procedimento societario contro l'Italia, il Barone Aloisi, rappresentante dell'Italia alla Società delle Nazioni, prendeva la parola all'Assemblea.
Dopo aver confutato le accuse mosse al Governo italiano, il Barone Aloisi protestò perché il memoriale italiano del 4 settembre non. era stato neppure letto. Chiese all'Assemblea perché l'Italia avesse avuto l'onore di una procedura sommaria e di un peso diverso da quello con cui vennero considerate le questioni analoghe del conflitto ciuo-giapponese e del Chaco. Rivendicò la parte sempre avuta dall'Italia nella S. d. N. e il contributo da essa dato alla civiltà del mondo. Ricordò che lo stesso Comitato dei Cinque aveva riconosciuto nel suo progetto di riforme che l'Etiopia non possedeva le condizioni necessarie per conservare la sua qualità di membro della Società. Mise in evidenza lo spirito aggressivo abissino e i suoi armamenti, le sue mire chiaramente dichiarate per toglierci l'Eritrea e la Somalia. Contestò che le operazioni militari intraprese costituissero una rottura del Patto, in quanto non erano che un mezzo di legittima difesa, riconosciuto da tutti gli Stati e anche dallo spirito del Patto della S. d. N. e del Patto Briand-Kellogg. E concludeva: «La guerra non si sopprime, si sostituisce. E si sostituisce perché la storia non si ferma. Se la Società delle Nazioni per suo conto si ferma, la storia che non si piega per forza di sanzioni, continuerà per la sua via che è vita. L'Italia, che è convinta di interpretare essa il vero spirito della S. d. N. e che in questa circostanza combatte non solo la sua battaglia, ma anche la battaglia della S. d. N., perché ne vuole esaltare lo spirito che è vita contro la lettera che è morte, l'Italia ha il legittimo orgoglio di indicare con sicurezza alla Lega la via che potrà renderla vitale e efficiente. Questa via è segnata da due principi: 1) mettere da parte risolutamente la politica dei due pesi e delle due misure; 2) armonizzare il Patto nel suo insieme, ossia la parte evolutiva con la parte conservatrice. per ottenere così tutta l'elasticità necessaria che permette di seguire la Storia e di regolare le nuove situazioni man mano che si sviluppano e che in mancanza di questa elasticità divengono fonte sicura di conflitto.
«Nessuno meglio dell'Italia può esprimere questo spirito nuovo, questa necessità imperiosa di vita. Nazione che ha uno sviluppo spirituale e materiale, costretta da vicissitudini storielle e da restrizioni internazionali in limiti territoriali che si rivelano sempre più angusti, l'Italia deve fare intendere davanti all'Assemblea degli Stati la sua voce di grande proletaria che domanda giustizia».

 

A. C.